"Chi votò contro Falcone? È come Pilato..."
Nel 1988, chi non permise l'elezione di Giovanni Falcone alla nomina di capo dell'Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, si comportò "pilatescamente"
Non devono offendersi se vengono paragonati a Ponzio Pilato - il governatore romano che lavandosi le mani lasciò decidere alla folla la condanna a morte di Gesù - i componenti del Csm che con il loro voto, o la loro astensione, favorirono il 19 gennaio 1988 la nomina di Antonino Meli al posto di Giovanni Falcone a capo dell'Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo.
Lo sottolinea la Cassazione in un verdetto che ripercorre la controversa e drammatica decisione presa da Palazzo dei Marescialli alla quale molti fanno risalire l'origine delle manovre per indebolire il pool antimafia di Palermo e la decisione di Falcone - che era il successore designato di Antonino Caponnetto in quell'ufficio - di lasciare Palermo esponendosi al destino che la mafia gli preparava.
Con questa decisione, la Suprema Corte ha respinto il ricorso di un ex togato del Csm, Renato Papa, a lungo procuratore aggiunto a Catania, che si era sentito diffamato dal passaggio di un libro edito da Longanesi - 'Da cosa nasce Cosa' di Alfio Caruso - nel quale il suo comportamento veniva sintetizzato dal riferimento a Pilato. Papa voleva essere risarcito. Nel libro - spiega la Cassazione, sentenza 11628, Terza sezione civile - "quella del 19 gennaio 1988 era definita come 'la notte del disonore per la giustizia italiana, il punto più basso della sua storia' e venivano fatti i nomi dei 14 membri del Csm che votarono contro Falcone, aggiungendo a questi i nomi degli altri 5 (tra cui quello di Papa) che 'pilatescamente si rifiutarono di decidere'".
Ripercorrendo la decisione con la quale la Corte di Appello di Milano nel 2007 aveva negato il risarcimento, i supremi giudici rilevano che "il voto in questione non era diretto a deliberare la nomina di Meli o di Falcone, bensì riguardava la sola nomina del Meli; dal verbale della seduta del Csm risulta che i voti a favore del Meli furono 14, 10 contrari e 5 astenuti (tra questi, appunto, Papa)". "Effettivamente - prosegue il verdetto - il Papa si era espresso per la rimessione in commissione della pratica, per un ulteriore approfondimento; tuttavia, considerate le espressioni finali di voto, anche il voto degli astenuti finì per giovare al Meli, considerato, appunto, che a suo favore votarono 14 (non 15) componenti e che, senza le astensioni, il magistrato non avrebbe conseguito la carica in assegnazione".
Ad avviso della Suprema Corte, i brani del libro che affermano come "con questo tipo di dinamica politica e di comunicazione" le astensioni "pur soggettivamente motivate con un intento contrario a Meli, sono state di fatto astensioni che hanno funzionato a favore", sono stati ritenuti rispettosi del principio della "continenza" dai giudici milanesi in modo che non merita obiezioni. Perché l'autore del libro proprio a quella "dinamica" si riferiva nell'usare l'espressione "pilatescamente": con questa "volendo indicare una persona che ha una condotta consapevolmente non in linea con il risultato finale, ma che quel risultato produce o non impedisce", conclude la Cassazione.
In pratica, chi si astenne nel voto su Meli - giudice con più anzianità di carriera rispetto a Falcone ma privo della sua esperienza nella lotta alla mafia - realizzò, osserva la Suprema Corte (presidente Antonio Segreto, relatore Angelo Spirito) - "quel fenomeno che viene definito in filosofia ed in psicologia come 'eterogenesi dei fini', in ragione del quale si verificano conseguenze non intenzionali da azioni umane intenzionali". [Fonte: ANSA]