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"Chi votò contro Falcone? È come Pilato..."

Nel 1988, chi non permise l'elezione di Giovanni Falcone alla nomina di capo dell'Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, si comportò "pilatescamente"

22 maggio 2014

Non devono offendersi se vengono paragonati a Ponzio Pilato - il governatore romano che lavandosi le mani lasciò decidere alla folla la condanna a morte di Gesù - i componenti del Csm che con il loro voto, o la loro astensione, favorirono il 19 gennaio 1988 la nomina di Antonino Meli al posto di Giovanni Falcone a capo dell'Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo.
Lo sottolinea la Cassazione in un verdetto che ripercorre la controversa e drammatica decisione presa da Palazzo dei Marescialli alla quale molti fanno risalire l'origine delle manovre per indebolire il pool antimafia di Palermo e la decisione di Falcone - che era il successore designato di Antonino Caponnetto in quell'ufficio - di lasciare Palermo esponendosi al destino che la mafia gli preparava.

Con questa decisione, la Suprema Corte ha respinto il ricorso di un ex togato del Csm, Renato Papa, a lungo procuratore aggiunto a Catania, che si era sentito diffamato dal passaggio di un libro edito da Longanesi - 'Da cosa nasce Cosa' di Alfio Caruso - nel quale il suo comportamento veniva sintetizzato dal riferimento a Pilato. Papa voleva essere risarcito. Nel libro - spiega la Cassazione, sentenza 11628, Terza sezione civile - "quella del 19 gennaio 1988 era definita come 'la notte del disonore per la giustizia italiana, il punto più basso della sua storia' e venivano fatti i nomi dei 14 membri del Csm che votarono contro Falcone, aggiungendo a questi i nomi degli altri 5 (tra cui quello di Papa) che 'pilatescamente si rifiutarono di decidere'".

Ripercorrendo la decisione con la quale la Corte di Appello di Milano nel 2007 aveva negato il risarcimento, i supremi giudici rilevano che "il voto in questione non era diretto a deliberare la nomina di Meli o di Falcone, bensì riguardava la sola nomina del Meli; dal verbale della seduta del Csm risulta che i voti a favore del Meli furono 14, 10 contrari e 5 astenuti (tra questi, appunto, Papa)". "Effettivamente - prosegue il verdetto - il Papa si era espresso per la rimessione in commissione della pratica, per un ulteriore approfondimento; tuttavia, considerate le espressioni finali di voto, anche il voto degli astenuti finì per giovare al Meli, considerato, appunto, che a suo favore votarono 14 (non 15) componenti e che, senza le astensioni, il magistrato non avrebbe conseguito la carica in assegnazione".

Ad avviso della Suprema Corte, i brani del libro che affermano come "con questo tipo di dinamica politica e di comunicazione" le astensioni "pur soggettivamente motivate con un intento contrario a Meli, sono state di fatto astensioni che hanno funzionato a favore", sono stati ritenuti rispettosi del principio della "continenza" dai giudici milanesi in modo che non merita obiezioni. Perché l'autore del libro proprio a quella "dinamica" si riferiva nell'usare l'espressione "pilatescamente": con questa "volendo indicare una persona che ha una condotta consapevolmente non in linea con il risultato finale, ma che quel risultato produce o non impedisce", conclude la Cassazione.
In pratica, chi si astenne nel voto su Meli - giudice con più anzianità di carriera rispetto a Falcone ma privo della sua esperienza nella lotta alla mafia - realizzò, osserva la Suprema Corte (presidente Antonio Segreto, relatore Angelo Spirito) - "quel fenomeno che viene definito in filosofia ed in psicologia come 'eterogenesi dei fini', in ragione del quale si verificano conseguenze non intenzionali da azioni umane intenzionali". [Fonte: ANSA]

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22 maggio 2014
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