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''Così hanno rapito Giuliana Sgrena''. Il racconto dell'interprete della giornalista del Manifesto rapita a Baghdad

Wael Abu Mustafa ha raccontato il rapimento a Renato Caprile, inviato di Repubblica

12 febbraio 2005

''Così hanno rapito Giuliana''
Il racconto del traduttore Wael Abu Mustafa: ''quel servizio era pericoloso, ma lei ci teneva troppo. Le guardie hanno sparato in aria anziché intervenire''
dall'inviato Renato Caprile per ''la Repubblica''

''Abbiamo rischiato la vita per evitare che Giuliana fosse rapita. A Muhannad, mio cugino - l'autista, ndr - hanno addirittura sparato addosso mentre correva verso la stazione di polizia dell'università. E' vero, lo hanno mancato, ma solo di un paio di centimetri. Io ho cercato di lottare con tutte le mie forze, ma sono stato ridotto all'impotenza e picchiato più volte in testa con il calcio della pistola...''.

Inizia così il drammatico racconto di Wael Abu Mustafa, 32 anni, l'interprete di Giuliana Sgrena, su quel maledetto primo pomeriggio di venerdì 4 febbraio.

''No, non mi sento in colpa, anche se mi rimprovero di non essere riuscito a trovare le parole giuste per farle capire che quel servizio sugli sfollati di Falluja, accampati dietro la moschea Al Mustafa, era davvero pericoloso. Ma Giuliana non ha voluto sentire ragioni. Era troppo sicura di essere dalla parte giusta della barricata per avere paura di qualcosa o qualcuno. Tranquillo, mi ha detto, vedrai che non ci succede niente. E così mi sono convinto''.

''Se mi fossi rifiutato, sono sicuro che in un modo o nell'altro sarebbe andata lo stesso a parlare con quella gente. Qualcuno ha scritto che la polizia sospetta di noi. Di me e di mio cugino. Ma sarebbe più giusto dire che stiamo diventando il paravento dietro il quale cercano di nascondere la loro incapacità. Sono andato io spontaneamente a raccontare come erano andate le cose". La stessa cosa ha fatto Muhannad.
''Solo che a lui, che come me non c'entra niente, lo stanno trattenendo. La verità è che se non ci fossimo presentati noi, nemmeno sarebbero venuti a cercarci. Per fortuna che gli amici del manifesto hanno deciso di pagare un avvocato perché mio cugino ritorni al più presto dalla sua famiglia. Io non so chi abbia rapito Giuliana. Quella gente non la conoscevo. Ma se qualcuno in questa storia ha delle responsabilità, io allora punto l'indice contro i poliziotti dell'università. Erano a cinquanta metri da noi''.
 
''Hanno visto tutto, hanno sparato, è vero, ma solo in aria. Se fossero intervenuti probabilmente i banditi - erano non più di cinque o sei - avrebbero desistito''.

''Ma partiamo dall'inizio. Dalle dieci del mattino di venerdì scorso. Fa freddo e piove, ma quando arrivo all'hotel Palestine, Giuliana, con la quale ho lavorato altre due volte in passato, è già nella hall pronta ad uscire. E Barbara? (la Schiavulli, ndr), le chiedo. Ha deciso di non venire, mi fa. Ci allontaniamo in fretta dal compound dell'albergo. Muhannad ci aspetta al solito in Sadoun Street, sulla sua Prince nera. Un'auto come tante, di quelle che non danno nell'occhio. Io mi siedo davanti, Giuliana dietro. Partiamo. Le strade sono semi-deserte come sempre nei giorni di festa. Puntiamo verso Jadirya, nel centro di Bagdad, nella zona della vecchia università.
Siamo diretti alla moschea Al Mustafa. Dove chiederemo allo sceicco Hussein il permesso di poter parlare con i rifugiati di Falluja che hanno trovato alloggio nelle 150 tende allestite intorno al minareto. Sheikh Hussein non ha problemi: "Andate pure", ci dice. Un attimo dopo siamo immersi in una realtà che Giuliana conosce assai bene.
Vecchi, donne, bambini. Storie tremende dell'altra faccia della guerra, quella meno conosciuta ma non meno dolente. Giuliana appunta tutto: nomi, circostanze, impressioni. Anche se non capiscono una sola parola di quello che ci diciamo in inglese, ho l'impressione che quella gente avverta quanto Giuliana sia dallo loro parte. Provo a metterle fretta. Ma lei non ci sta: siamo qui e ci rimaniamo. Non vedo pericoli, qual è il problema? Forse la conforta la presenza di altri giornalisti, nel frattempo è arrivata una troupe giapponese, che adesso è a pochi metri da noi intenta a riprendere il campo. Sono troppo concentrato nella traduzione per accorgermi di altro. Forse qualcuno ci sta osservando"
.

''Forse. Mezzogiorno. L'ora della preghiera e di una pausa obbligata. Potremmo tornarcene in albergo, ma Giuliana decide di attendere che lo sceicco finisca la sua predica per intervistarlo. Forse quei minuti in più sono fatali. Forse la trappola sarebbe scattata lo stesso. Hussein è finalmente disponibile.
Mezz'ora dopo, alle 13,35, rimontiamo in auto e finalmente imbocchiamo la porta che dà sul Tigri, a poche decine di metri dal ponte di Jadirya. Mentre usciamo, capisco subito che qualcosa non va.
C'è una strana Opel grigia ferma sotto quel ponte. Metto subito in allarme Muhannad: attento, cugino quella macchina non mi convince. Non ho nemmeno il tempo di pronunciare queste parole che quell'auto si è già messa di traverso per sbarrarci il passo. Quando intravedo un fuoristrada coreano qualche metro oltre l'Opel, non ho più dubbi: ce l'hanno proprio con noi. Maledizione''
.

''Dall'Opel scendono in tre. Giovani, sui 25-30 anni, a volto scoperto e si mettono a gridare: Taftish, taftish, controllo, controllo. Ma quale controllo, urlo a Muhannad, sono shllaba. Banditi. Ti prego, Muhannad fa qualcosa! Muhannad tenta l'unica manovra possibile: una retromarcia. Ma una terza macchina ci sperona subito da dietro. Siamo intrappolati.
Giuliana non dice una sola parola. Almeno così mi sembra. Invece Muhannad schizza fuori dalla macchina e si mette a correre come un indemoniato verso la stazione di polizia che dista da noi non più di cinquanta metri. Gli sparano addosso uno, due colpi, ma lui riesce ad arrivarci indenne. In tutto questo, due dei tre banditi si avvicinano alla nostra macchina. Uno apre lo sportello posteriore e trascina via Giuliana. La sento urlare, mi si spezza il cuore, mentre il secondo uomo apre il mio sportello puntandomi una pistola alla tempia''
.

''Devo fare qualcosa, mi dico, e provo ad aggredire chi mi minaccia. Ma lui è più forte di me, è armato e mi colpisce più volte alla testa con il calcio della pistola. Mi ritrovo sul sedile posteriore con un gran mal di testa, mentre nella vicina stazione di polizia qualcuno inizia finalmente a sparare. Il fuoristrada con Giuliana non si è ancora allontanato. Adesso arrivano, provo a confortarmi, ma quelli si limitano a poche sventagliate di mitra sparate in aria. Quando i banditi capiscono che possono farcela, montano sulla jeep e partono, mentre il terzo si mette alla guida della nostra macchina dopo avermi buttato fuori a calci''.

''Raggiungo in lacrime i poliziotti. Un quarto d'ora dopo arrivano gli americani. Li informo che hanno rapito Giuliana. Ma ormai è già troppo tardi''.

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12 febbraio 2005
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