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''Di mafia parlino le sentenze''. Andrea Camilleri contro la fiction ''Il capo dei capi''

30 novembre 2007

Di mafia parlino le sentenze
di Andrea Camilleri (La Stampa, 29 novembre 2007)
 
Mi è capitato nei giorni scorsi di non essere d'accordo col ministro Mastella quando ha contribuito a non far mettere in onda ''Una vita rubata'', una fiction televisiva che riproponeva la barbara uccisione di un'incolpevole ragazza minorenne da parte del boss mafioso Gerlando Alberti jr, già condannato all'ergastolo per questo delitto, ma poi inspiegabilmente (o troppo spiegabilmente) rimesso in libertà.
La motivazione della sospensione è stata che la trasmissione poteva in qualche modo influire sul procedimento in corso contro Gerlando Alberti Jr. Mirabile atto di quasi sovrumano garantismo! Il ministro, nei giorni scorsi, ha preso di mira un'altra fiction, questa volta di Mediaset, mentre la prima era della Rai. Par condicio? Si tratta de 'Il capo dei capi', una biografia di Totò Riina della quale, a quanto pare, si sentiva l'urgente bisogno. Il ministro ha auspicato che venisse sospesa, pur trovandola ben fatta, in quanto pericolosamente diseducativa perché finiva con l'esaltare la figura di Riina, presentava il boss come una specie di eroe positivo (ma questo è anche il parere di un magistrato del valore di un Ingroia) e conteneva in sé un'alta potenzialità di suggestione.

Venendo da un pulpito così tarlato, le parole del ministro sono state dileggiate, rifiutate, controbattute. E lo stesso ministro ha fatto tutto il possibile perché le sue parole venissero male interpretate, prima usando alcuni verbi che a lui sono cari e che invece non esistono nel mio vocabolario («proibire», «sospendere», «vietare») e in secondo luogo affermando di non aver visto lo sceneggiato, ma di esserselo fatto raccontare. Pare che sia un costume assai diffuso tra i politici, Berlusconi e Prodi compresi, quello di polemizzare su trasmissioni mai viste. Ma la validità delle osservazioni mosse alla fiction, a mio parere, resta intera. E propone una seria riflessione. Non si tratta di non parlare di mafia (più se ne parla e meglio è), è in quale contesto se ne parla. Questa fiction è stata sceneggiata anche da Claudio Fava, sulla cui netta presa di posizione antimafia non c'è nemmeno da discutere. Il fatto è che il risultato finale rischia d'ottenere l'effetto opposto di quello voluto. E questo capita sempre nei romanzi e nei film che si occupano di mafia. Mi richiamo a due titoli classici. Nel Giorno della civetta di Leonardo Sciascia, il boss don Mariano Arena, come «positività» e simpatia batte il capitano Bellodi. Naturalmente, contro la volontà dell'autore. Chi non ricorda la suddivisione dell'umanità secondo le categorie di don Mariano (quegli ominicchi e quei quaquaraquà entrati nell'uso comune)? Nel Padrino, la magica interpretazione di Brando ci fa dimenticare del tutto che egli è il mandante di stragi ed efferati omicidi.
Io personalmente ritengo che l'unica letteratura che tratti di mafia debba essere quella dei verbali di polizia e carabinieri e dei dispositivi di sentenze della magistratura. A parte i saggi degli studiosi, naturalmente.
E poi, che significa che questo sceneggiato è ben fatto? Tecnicamente, sì, certo. Ma, di necessità, è assai riduttivo. Per esempio, è quasi impossibile rendere in uno sceneggiato la concezione solare che della vita hanno, faccio dei nomi a caso, le famiglie Cassarà, Borsellino, Falcone rispetto a quella oscura, cupa e chiusa dei Riina e dei Bagarella. E' uno degli elementi che non si possono e non si devono trascurare, perché altrimenti tutto diventa la rappresentazione di una serie di conflitti a fuoco e non dell'unico vero conflitto tra due culture: una di vita e l'altra di morte.

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30 novembre 2007
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