"Figlia mia, lo studio non paga, rende dei falliti"
Se i precari della scuola arrivano alla disperazione ma non accettano un fallimento imposto dall'alto...
Ieri mattina davanti all'ex provveditorato agli studi di via Praga a Palermo, un gruppo di precari per qualche ora ha bloccato gli uffici dove si sono comunque svolte le convocazioni annuali per il personale amministrativo. Settanta i posti disponibili. La protesta è scattata quando si è diffusa la notizia che il numero delle convocazioni era inferiore rispetto alle previsioni. E' stato richiesto l'intervento delle forze dell'ordine e davanti all'ufficio scolastico è arrivata la polizia.
"Tentiamo una contrattazione con il provveditore Rosario Leone per evitare che la situazione degeneri", ha detto Giuseppe Speciale, rappresentante del Comitato Ata, del personale tecnico-amministrativo. "Sono 70 i posti disponibili - ha aggiunto - mentre l'anno scorso erano 152. Oltre ai tagli della riforma Gelmini ci vediamo sottratto il posto di lavoro da personale non qualificato degli enti locali e ci costringono a non avere immissioni in ruolo".
Intanto 1.500 precari Ata attendono la decisione del Tar, che si pronuncerà il 9 settembre, sul ricorso presentato contro una circolare emanata dal provveditorato agli studi che prevede ulteriori tagli
"Chiediamo la sospensione della circolare - ha detto Paolo Di Maggio del Comitato Precari di via Praga - Siamo vincitori di un concorso per titoli bandito dal ministero e le percentuali dei tagli sono errate, sono state fatte in funzione di uno schema di decreto che a tutt'oggi non è stato approvato".
Le settimana in corso sarà una settimana di mobilitazioni per i precari della scuola. Oggi si è tenuta un'assemblea della Cgil nei locali dell'ex provveditorato, domani invece partirà da via Praga, alle 16.30, un corteo organizzato dai Cobas. Il 12 settembre i precari di tutte le province siciliane si daranno appuntamento a Messina per la manifestazione regionale "Invadiamo lo Stretto". A Roma domani è previsto un incontro tra i delegati dei precari di ogni parte d'Italia per discutere le proposte da inserire nella piattaforma nazionale, elaborata dal coordinamento della scuola.
"Non studiare figlia mia. Chi studia è un fallito" - "Mio dolcissimo amore, al momento posso solo dirti che lo studio non paga, non rende migliori, rende dei falliti, non serve a niente: meglio imparare un mestiere, ragionare poco, e guadagnare presto". E' questo uno dei passi carichi di rabbia e amarezza contenuti in una lettera aperta che Rosalinda Gianguzzi, un'insegnante precaria siciliana "delusa" dai tagli della riforma Gelmini, scrive alla figlia che si appresta ad andare in prima elementare.
"Quel giorno sta arrivando amore mio, davvero presto, ma io non varcherò con te quella soglia. La mamma resterà fuori, a lottare, perché quella scuola dalla quale sono stata brutalmente estromessa, quella scuola che ho contribuito a rendere una delle migliori del mondo, quella scuola in cui credevo e che amavo, sia buona anche per te e per tua sorella l'anno prossimo". E aggiunge sempre rivolta alla figlia: "Quando mi dici 'voglio insegnare', non riesco a dirti che è il lavoro più bello del mondo, ma che i sacrifici per riuscire a farlo forse non valgono la pena. Anche perché come si diventa insegnanti? Ieri per concorso e titoli, oggi per residenza, domani per discrezionalità dei presidi: è veramente un tunnel senza fine!". Ed ecco la conclusione sarcastica ed amara nello stesso tempo: "Meglio frequentare le scuole di danza, tenervi a dieta, rendervi belle, appetibili, con pochi scrupoli, ambiziose per inserirvi facilmente nel mondo del lavoro".
Eppure nonostante tutto tra le righe prende corpo una speranza: "Spero di riuscire a fare la mia piccola parte per mutare le cose presto, affinché la tua domanda non arrivi prima che io sia riuscita a cambiare la risposta".
Quel disastro chiamato scuola
di Giusto Catania (LiveSicilia.it, 7 settembre 2010)
Perchè è possibile effettuare il più grande licenziamento di massa di lavoratori della pubblica amministrazione nel disinteresse, quasi generale, del Paese? Anzi, perché è possibile farlo addirittura con plausi, attestazioni di stima e dissertazioni macroeconomiche che giustificano il misfatto?
Come se non fosse già grave questo, la "fuoriuscita degli esuberi" avviene nel settore cardine della nostra democrazia, nel cuore della più grande istituzione formativa, in quella prestigiosa palestra di vita che dovrebbe disegnare la traiettoria del futuro di un Paese che sta diventando sempre più povero e ignorante. La scuola.
Abbiamo perso tutto: la scuola di massa, l’istruzione pubblica, il ruolo del docente, la sua autorità morale e pedagogica. Perché è avvenuto tutto ciò? Colpa della signora Ministro Maria Stella Gelmini? Purtroppo no.
Le responsabilità di tale disastro sono ataviche, vanno ricercate nelle scelte politiche e culturali degli ultimi venti anni: dalla riforma Galloni e Ruberti che voleva consolidare il rapporto tra scuola e impresa alla beffa del Ministro Berlinguer che avviò l’equiparazione tra pubblico e privato; dalle scelte post-manageriali della Moratti alle follie didattiche-formative di Fioroni.
La scuola è stata una sterminata prateria di sperimentazione per la riorganizzazione di un mercato del lavoro precario e flessibile, è stato il luogo della passivizzazione delle coscienze, svilendo il ruolo dell’insegnante attraverso farraginose procedure di immissione nelle graduatorie, nei corso abilitanti, nelle scuole di specializzazione. E contemporaneamente si sono violentati i programmi scolastici rendendoli più aleatori, limitando la libertà di insegnamento e di apprendimento, comprimendo la cultura dentro schemi preconfezionati che hanno illuso di poter costruire una programmazione più rispondente alle esigenze degli studenti.
Era tutto falso. In realtà tutto ciò è stato complementare e speculare alla grande operazione pedagogica che è stata pensata e costruita per realizzare l’involuzione culturale del Paese.
Aveva ragione Pier Paolo Pasolini, nelle sue visionarie riflessione vecchie già di quasi quarant’anni: "Per mezzo della televisione, il Centro ha assimilato a sé l’intero Paese, che era storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un uomo che consuma, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quelle del consumo. Un edonismo neolaico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane."
Questa nuova ideologia ha lottato e vinto contro ogni valore umanistico, contro le fondamenta di una cultura, improvvisamente apparsa eccessivamente lirica e velleitaria, che è stata fatta a pezzi dal bombardamento quotidiano di valori della competitività, del divismo voyeuristico, del successo effimero generato dalle svariate forme dell’apparire. È avvenuta una rivoluzione conservatrice nel Paese.
Così si forma il nuovo senso di massa del Paese e le cinque ore di quotidiana litania ammantata da nozioni e spirito pedagogico si sconquassa al cospetto del "Mostro mite" (come lo ha chiamato Raffaele Simone in un suo illuminante saggio di qualche anno fa!) che ha ormai conquistato le coscienze del popolo italiano. C’è un modo per ribaltare i rapporti di forza? Un’altra Rivoluzione. Culturale, ovviamente, ma sempre Rivoluzione.