"Il fatto non costituisce reato"
Il generale Mori e il colonnello Obinu assolti dall'accusa di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra
Il generale Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu sono stati assolti dall'accusa di favoreggiamento aggravato a Cosa nostra per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano. Una sentenza arrivata dopo sette ore e mezzo di camera di consiglio, più di cento udienze, cinque anni di dibattimento e oltre novanta testi tra accusa e difesa.
Mori e Obinu sono stati assolti perché "il fatto non costituisce reato".
''C'è un giudice a Palermo'', ha sinteticamente commentato Mario Mori che ha assistito impassibile alla lettura della sentenza. Accanto a lui, il coimputato Mauro Obinu, colonnello in pensione, intento invece a masticare nervosamente un chewingum. Anche lui, però non si è mosso. Si è limitato a un mezzo sorriso e a dire sottovoce: ''ne ho viste tante nella mia vita''.
Alla fine della lettura del verdetto, il generale Mario Mori si è allontanato velocemente dall'aula stracolma di cronisti passando da un'uscita laterale, scortato dai suoi carabinieri. "Io non voglio commentare, parla tu", ha detto al suo difensore, l'avvocato Basilio Milio. "E’ una sentenza che pone fine a cinque anni di massacro mediatico che rende onore a delle persone per bene che hanno sempre fatto il loro dovere. Una sentenza che fa anche giustizia delle calunnie che gli hanno rivolto - ha aggiunto l'avvocato Basilio Milo - Una sentenza coraggiosa, non perché non vi fossero gli elementi per assolverli, coraggiosa per i condizionamenti costanti che hanno animato questo processo".
"Vergogna!", ha gridato qualcuno nell'aula alla lettura della sentenza. Tra il pubblico, oltre ai giornalisti, era presente un gruppo di appartenenti del cosiddetto 'popolo delle agende rosse' di Salvatore Borsellino. "Siamo indignati. Questo processo è la dimostrazione che lo Stato non processa se stesso. Speravamo che potesse accadere, ma anche stavolta non è accaduto". Qualcun altro ha gridato "vergogna, leggete le carte". "Conoscendo le carte - hanno poi spiegato - speravamo in risultato diverso ma sapendo i sistemi di potere che ci sono dietro ce lo potevamo aspettare. Noi continueremo a lottare per la verità".
L'espressione del volto del generale Mori è rimasta quella di sempre: raramente in cinque anni di processo e oltre cento udienze Mario Mori ha tradito emozioni. Anche se cosa pensasse dell'accusa di favoreggiamento alla mafia che l'ha inchiodato non faceva mistero. Come espliciti erano i giudizi - durissimi - verso uno dei suoi principali accusatori, Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco mafioso di Palermo Vito con cui, secondo il racconto dell'accusa, avrebbe tramato e stretto il patto che voleva il boss Bernardo Provenzano libero in cambio della fine delle stragi e dell'arresto dei latitanti. Un millantatore, un teste inattendibile, questo per il generale, anni da vicecomandante del Ros e da capo del Sisde, era Massimo Ciancimino. Giudizi che, almeno dalla prima lettura del verdetto, condividono i giudici palermitani che hanno assolto l'ufficiale e il suo coimputato, il colonnello Mauro Obinu, dall'accusa di avere volutamente fatto fallite il blitz che, il 31 ottobre del 1995, avrebbe potuto portare alla cattura di Provenzano.
I dubbi su Ciancimino jr del collegio presieduto da Mario Fontana, magistrato di grande esperienza nei processi di mafia, si leggono evidenti nella decisione di trasmettere gli atti alla Procura perché valuti le dichiarazioni rese dal figlio di don Vito nella testimonianza al processo Mori. Tradotto: siano i pm, gli stessi che l'hanno considerato teste attendibile, ad accertare se Ciancimino ha mentito o calunniato gli imputati. Stesso trattamento per l'altro testimone chiave del dibattimento, l'ex colonnello Michele Riccio, il primo a parlare del mancato blitz di Mezzojuso, quando il Ros sarebbe stato a un passo dal capo dei capi di Cosa nostra e avrebbe preferito non intervenire. Anche per lui è stata disposta la trasmissione degli atti alla Procura.
"Ho raccontato i fatti: su quelli non credo che ci siano discordanze. Gli stessi imputati hanno confermato gli incontri con mio padre. Sinceramente la mossa del Tribunale nei miei confronti mi sembra provocatoria", ha detto Massimo Ciancimino, dopo avere saputo che nei suoi confronti il Tribunale ha trasmesso gli atti alla Procura. Una decisione che potrebbe preludere a una sua incriminazione per falsa testimonianza o calunnia per le dichiarazioni fatte al processo Mori.
Ciancimimo jr è stato sentito in diverse udienze e ha raccontato quello che sarebbe stato il movente del mancato arresto del boss Bernardo Provenzano, oggetto delle accuse al generale. "Non voglio commentare sentenze che tra l'altro nemmeno mi riguardano", ha detto Ciancimino, aggiungendo però "questi processi non passano, si sa". "Io avevo il dovere di raccontare i fatti - ha spiegato - Leggeremo nelle motivazioni cosa avrei fatto e se si può configurare un reato. Anche la tempistica del mio arresto per evasione fiscale mi fa riflettere su come vanno le cose".
Amareggiati e pronti ad impugnare la sentenza, i pm. "Rispetto la sentenza, ma non ne condivido alcun passaggio". Così il pm di Palermo Nino Di Matteo ha commentato l'assoluzione. Di Matteo, che ha rappresentato la Procura al processo e ha chiesto la condanna di Mori a 9 anni e di Obinu a 6 anni e 6 mesi, ha annunciato che impugnerà la sentenza.
"E' inutile negarlo, siamo tutti amareggiati...", ha detto il Procuratore aggiunto di Palermo, Vittorio Teresi. "Bisogna vedere il ragionamento che hanno fatto i giudici per ritenere non credibili Riccio e Ciancimino - ha aggiunto Teresi - lo spiegheranno nelle motivazioni".
Adesso tutti si chiedono se questa assoluzione potrà influenzare in qualche modo il processo per la trattativa tra Stato e mafia in corso davanti alla Corte d'assise di Palermo. Tra gli imputati c'è lo stesso Mario Mori, accusato di attentato a un corpo politico dello Stato.
"In questo processo, durato quasi cinque anni, è emersa la più complessa storia dei rapporti tra lo Stato e la mafia tra gli anni Ottanta e Novanta", aveva esordito nella requisitoria il pm Di Matteo. "Una storia cui una parte delle istituzioni, per un'inconfessabile ragione di Stato, ha cercato e ottenuto il dialogo con l'organizzazione mafiosa nel convincimento che quel dialogo fosse utile a fermare le manifestazioni più violente della criminalità e a ristabilire l'ordine pubblico. Questo è un processo drammatico in cui lo Stato processa se stesso".
Ma con l'assoluzione di Mori, che per i pm avrebbe lasciato scappare il boss per onorare il patto siglato nel '92 tra pezzi dello Stato e la mafia, una pesantissima ipoteca finisce per gravare sul processo sulla trattativa.