''Il risveglio del telamone''... un sogno ad occhi aperti di Agostino Spataro
''...mi si parò di fronte, fissandomi col suo volto austero, segnato da un ghigno doloroso.''
Il risveglio del telamone *
di Agostino Spataro
Curiosando fra i pannelli della ricca mostra ''Urbanistica e architettura nella Sicilia greca'', esposta al Museo archeologico di Agrigento, mi soffermai sopra una nota di Diodoro Siculo a proposito del tempio di Zeus Olimpico, il più grande e sontuoso della Magna Grecia: ''All'Olimpo mancava ancora il soffitto, e la guerra impedì di costruirlo; dopo la distruzione della città mai più quelli di Akragus furono in grado di completare ì lavori...'' (in D. Siculo Biblioteca storica, XIII, 82, Palermo. 1988).
Una sottolineatura dolente che segnala l'esistenza di un'eterna incompiuta. Pensai che si potrebbe girare la questione al ministro Lunardi affinché l'inserisca nel programma delle grandi opere da completare e da far inaugurare a Berlusconi... a 2.484 anni dall'inizio dei lavori.
Dopo la Palermo-Messina (solo 40 anni), sarebbe questo un record strabiliante, di valenza interplanetaria!
Idea, tuttavia, improponibile poiché i posteri degli akragantini non solo non completarono il tempio, ma fecero di peggio: usarono le sue mastodontiche colonne (in una scanalatura poteva starci comodamente un uomo) e i capitelli per costruire palazzi, strade ed anche il molo di Porto Empedocle. Un abuso inverecondo, verificatosi anche in altre città, che però qui non si deve ricordare, altrimenti s'incorre nell'indignazione furente delle più alte autorità politiche e religiose.
In questa città, che si dimena fra un passato fulgente e un infelice presente, può capitare che certa gente s'indigni più facilmente non contro l'autore di un abuso, ma contro chi lo denuncia. Per altro, questa è anche la città del senatore Cirami, quello del ''legittimo sospetto'', chissà se il futuro polista non ci riservi una nuova fattispecie di reato: la lesione della dignità civica. Con ciò non si vuol dire che ad Agrigento si sia smarrita la nozione del lecito, solo che si riscontra una crescente difficoltà nel metterla in pratica. Un accidente del genere è capitato anche a me, nei mesi scorsi, per avere scritto di tale misfatto, antico e arcinoto, da molti attribuito (o perlomeno favorito) allo zelo industrialista del vescovo Gioeni che, nel 1736, sponsorizzò il progetto di realizzazione del porto empedoclino per la cui costruzione furono utilizzati i resti del grandioso tempio. Un disastro che provocò una forte delusione in Wolfgang Goethe il quale, la mattina del 25 aprile 1787, visitando la Valle dei Templi, insieme al suo amico pittore Kniepp, non potè fare a meno di annotare: ''Ogni forma è scomparsa da questo cumulo di rovine... Ce ne andammo con la sgradevole sensazione che qui, per il pittore, nulla ci fosse da fare...'' (in Viaggio in Italia).
Com'è noto, il crollo del tempio avvenne a causa di un terremoto, ma la sua sparizione fu cagionata dall'indiscriminato prelevamento dei ruderi dalla fabbrica di Giove, come viene indicata, da diverse fonti storiche e letterarie, l'area in cui insisteva l'edificio sacro ricadente nei feudi della Chiesa agrigentina. E così, finirono sott'acqua colonne, capitelli e i giganti telamoni che, secondo una delle ricostruzioni più attendibili, sostenevano la trabeazione del tempio. Dalla deportazione si salvò solo uno dei 38 telamoni, forse perché precipitato nel burrone sovrastante il Giardino della Colimbetra, dove secoli dopo sarà ritrovato sfracellato e ricostruito da mani esperte e pietose (il Politi).
Oggi, si può ammirare questo sopravvissuto, alto (7,60 metri) e possente e dalle forme armoniche, inchiodato alla parete della sala Zeus del Museo agrigentino, dove periodicamente sì tengono deliziosi concerti di musica classica.
E fu proprio qui, l'altra sera mentre seguivo la brillante esecuzione di una giovane pianista palermitana (Elen Lucia Pappalardo), che il telamone mi si parò di fronte, fissandomi col suo volto austero, segnato da un ghigno doloroso.
Chiusi gli occhi e... Mi ritrovai, da solo, nella sala del gigante incatenato per assistere ad un evento prodigioso e, confesso, tanto atteso: il telamone, come animato da un potente soffio vitale, si scosse dal sonno millenario e prese a divincolarsi con una forza immane che gli avvampava ì muscoli. Uno strattone a destra, l'altra a sinistra, caddero calcinacci e frammenti di laterizi. Liberatosi dal suo inesorabile supplizio, uscì, barcollante, da una nuvola di polvere biancastra e si avviò, lesto e deciso, giù per il declivio che porta all'area sacra della valle. Chiamò, a gran voce, i suoi fratelli, ma nessuno rispose. Ne trovò uno steso supino sulla spianata del tempio, il corpo sformato e mutilato di un piede, il viso camuso e gravemente corroso dalla furia degli elementi e dai veleni di nafta e benzine.
Presto s'accorse che era una copia orrenda di quella eletta razza di giganti, colà esposta al pubblico ludibrio. Emise un urlo atroce ed invocò il padre Zeus, pregandolo di accordargli la vendetta. Rannicchiato nella sua umile dimora posta nel cielo più basso, Zeus trasecolò nell'udire quell'urlo disumano. Da millenni, nessuno l'aveva più invocato.
''Chi sarà mai costui? E cosa vorrà da me? Perché non si rivolge al Dio che mi ha soppiantato?''. Mentre questi pensieri rimuginava, scostò la tenda e s'avvide che ad implorarlo era un gigante di pietra arenaria, un essere strano le cui sembianze non erano né ornane né divine.
- E tu chi sei? Cosa vuoi da me? Perché mi chiami padre? Lo interpellò, sospettoso, il vecchio dio.
- Padre, padre mio! Riconosco la tua voce. Io sono Cubezio, uno dei gemelli telamoni che qui reggevano il tuo maestoso tempio. Dimmi, o padre, dove sono i miei fratelli?
Zeus si passò una mano sulla fronte come per rischiararsi la memoria. Con tutti quei templi a lui dedicati, disseminati ai quattro angoli del mondo, era difficile ricordarsi dì quello a cui alludeva il telamone.
- L'Olimpeyon di Akragas - precisò Cubezio - eretto dal nobile Terone, l'eroe d'Imera. Era unico al mondo e noi giganti n'eravamo il segno distintivo.
- Ah! Sono vecchio e sfinito Cubezio e il campo della memoria s'assottiglia...
- Vecchio? Ma che dici? Tu sei Zeus immortale...
- Immortale! Quanto sei ingenuo amico mio. La nostra immortalità è stata inventata dai mortali i quali, non potendosela direttamente attribuire, hanno creato un'entità superiore sulla quale proiettare il loro smisurato desiderio d'immortalità, per l'appunto. Da questa superba ambizione nacque una caterva di dei e semidei, io stesso che ne fui proclamato padre. O forse ancora credi che sia stato un Dio a creare gli uomini?
- Certo che sì; gli uomini e i giganti. Replicò Cubezio, senza indugio.
- La tua semplicità è commovente. Tutti creduloni voi giganti. Te lo ripeto: le cose stanno esattamente all'incontrario. Noi, dei pagani, restammo vittime di uno dei tanti drammi che si sono svolti in cielo: improvvisamente, gli uomini ci considerarono passionali, caduchi, forse anche un po' umani, e pertanto inidonei a sorreggere le loro sfrenate ambizioni. Così fummo spodestati e al nostro posto subentrò un dio che non ammette emuli...
Cubezio appariva confuso, non riusciva a seguirlo in quel ragionamento astruso. Perciò, lo richiamò alla realtà di quelle rovine e alla sorte riservata ai suoi fratelli telamoni.
- Eh! I tuoi fratelli. Che brutta storia! Nei secoli, gli elementi fiaccarono la solidità dell'edificio, fino a quando un terremoto non lo fece crollare. Un ministro del Dio che mi ha soppiantato ne favorì la completa rovina: con le colonne c con i corpi sfracellati dei tuoi fratelli, costruirono un porto per dar rifugio ai legni... Nemmeno Annibale e i generali punici osarono fino a questo punto!
- Sono dunque sepolti sotto il mare i miei fratelli?
- Si, sotto il mare, a far da baluardo contro i marosi e da ricetto per polipi e murene...
- Dove si trova questo porto?, l'interruppe, impaziente, il telamone.
- A pochi stadi da qui, verso ponente, sulla costa sabbiosa dove c'è un sobborgo cui è stato imposto il nome di Empedocle, il più grande genio fra gli akragantini. Un nome, forse immeritato, oggi dileggiato con la furbesca aggiunta di una immaginaria Vigata...
Cubezio scattò come una molla e, lesto, s'incamminò verso occidente. Lo vidi trabalzare sopra !e collinette della Misilina e poi sparire giù per i calanchi d'argilla del Kaos che sovrastano il molo empedoclino...
Qui il sogno si spezzò. Peccato! Poiché è rimasto intatto il mistero della sorte dei giganti telamoni che, a questo punto, solo una squadra di archeologi subacquei (ora che in Sicilia è stata creata una Soprintendenza ad hoc) potrebbe disvelare.
* Articolo pubblicato sulla rivista ''Il Grandevetro'', bimestrale di politica e cultura