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''Li abbiamo gettati in mare...''

Ennesima tragedia dell'immigrazione nelle acque del Canale di Sicilia, a 60 miglia a sud delle coste Siracusane

04 settembre 2006

Sembra il capovolgimento del principio filosofico di Talete, quello di cui si ha esperienza nel mare del Canale di Sicilia: acque generatrici di morte. Affiorano carcasse di trapassati in quel mare, così come dovrebbero affiorare solo i luccicanti dorsi dei pesci, nei loro guizzi vitali.
Più volte è annegata la speranza degli uomini in quell'acqua, speranza che riemerge settimane dopo rigonfia, decomposta e irriconoscibile. E sempre più spesso i pescatori trovano la morte dell'uomo dentro le loro reti.

Negli ultimi tre giorni sono stati altrettanti i cadaveri recuperati in mare vicino le coste di Lampedusa dalla Guardia costiera, l'ultimo ieri mattina a sei miglia dall'isola, dopo la segnalazione di un diportista. E' probabile che anche in questo caso si tratti di una delle vittime del naufragio, avvenuto il 18 agosto scorso, con 10 morti e 40 dispersi: il barcone con 120 immigrati colò a picco dopo avere urtato la nave ''Minerva'' della Marina Militare.
E non saranno gli ultimi, purtroppo, a riemergere dagli abissi.

Sabato sera, 19 clandestini sbarcati a Porto Palo hanno dichiarato alla Guardia Costiera che sulla barca erano in 27 e che 8 di loro sono morti durante il viaggio verso l'Italia e sono stati gettati in mare. Il viaggio, sempre secondo il racconto dei clandestini, tutti uomini e tutti eritrei, è durato due settimane. Uno dei 19 immigrati è morto in nottata nell'ospedale Trigona di Noto.
Erano in mare da dodici giorni; non avevano più acqua da bere né cibo. ''Gli altri otto sono morti durante il viaggio e li abbiamo gettati in mare''.
Erano alla deriva a circa 60 miglia a sud di Capo Passero, nel Siracusano. I primi ad avvistarli sono stati i marinai della Maersk Dampier, una portacontainer battente bandiera liberiana. ''Erano disperati'', ricorda un ufficiale di coperta. ''Uno di loro si è gettato in mare e ha nuotato verso la nostra nave. Come gli altri era sfinito. Ci ha fatto capire che non beveva da un giorno; aveva le labbra screpolate dall'arsura e gli occhi che gli bruciavano''.

Accompagnati a Porto Palo dalla Guardia costiera la loro odissea l'hanno raccontata ad un soccorritore che conosce l'arabo. Poche parole: ''Siamo partiti dodici giorni fa: lo ricordo bene. Ogni volta che tramontava il sole facevo una tacca sul legno della barca. Dopo i primi giorni non avevamo più acqua e non c'era più niente da mangiare. Il primo è stato un ragazzo somalo che conoscevo: sembrava dormisse ma era morto. Sono morti in otto sulla barca. Cosa potevamo fare: dovevamo ancora viaggiare e non potevamo tenere in barca dei cadaveri. Li abbiamo buttati in acqua, poveretti''.

Altri morti ancora riemergeranno dalle acque del Canale di Sicilia, una mare che ha significato vita per millenni e che la disperazione e lo sventurato destino degli uomini ha trasformato in un cimitero

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04 settembre 2006
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