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''Liberateci o moriremo di stenti''

Il drammatico grido d'aiuto del capitano del Buccaneer, sequestrato dai pirati somali lo scorso 11 aprile

02 giugno 2009

L'11 aprile scorso un gruppo di pirati somali, in un'area del Golfo di Aden (tra il Puntland e il Somaliland, nel nord della Somalia), hanno sequestro il rimorchiatore italiano Buccaneer (LEGGI). A bordo della nave dieci marinai italiani, cinque romeni e un croato. La Buccaneer, di proprietà della Micoperi Marine Contractors di Ravenna, stava portando due bettoline da Singapore verso Suez. Il capitano è Mario Iarloi, 51 anni, di Ortona. I dieci marinai italiani a bordo sono: Mario Albano, primo ufficiale di coperta, iscritto alla Capitaneria di Porto di Gaeta (Latina); Tommaso Cavuto, secondo ufficiale di macchina, iscritto alla Capitaneria di Porto di Ortona (Chieti); Ignazio Angione, direttore di macchina, iscritto alla Capitaneria di Porto di Molfetta (Bari); Vincenzo Montella, marinaio, iscritto alla Capitaneria di porto di Torre del Greco (Napoli); Giovanni Vollaro, marinaio, iscritto alla Capitaneria di porto di Torre del Greco (Napoli); Bernardo Borrelli, marinaio, iscritto alla Capitaneria di porto di Torre del Greco (Napoli); Filippo Speziali, marinaio, iscritto alla Capitaneria di Porto di San Benedetto del Tronto (Ascoli Piceno); Filomeno Troino, cuoco, iscritto alla Capitaneria di Porto di Molfetta (Bari); Pasquale Mulone, 51 anni, marinaio, iscritto alla Capitaneria di Porto di Mazara del Vallo (Trapani).

Il giornalista del Corriere della Sera Massimo A. Alberizzi, è forse l'unica persona che fino ad ora è riuscita a raccogliere informazioni sulle condizioni degli uomini dell'equipaggio del Buccaneer.
Di seguito le ultime drammatiche e preoccupanti notizie sul loro stato esistenziale.

«LIBERATECI O MORIREMO DI STENTI»
di Massimo A. Alberizzi (Corriere.it, 02 giugno 2009)

NAIROBI (KENYA) - Drammatica telefonata con Mario Iarloi, comandante della Buccaneer, la nave italiana sequestrata l'11 aprile nel golfo di Aden dai pirati somali e ancorata al largo di Las Qorey, villaggio di pescatori nel Puntland, la parte settentrionale dell'ex colonia italiana. Le condizioni di vita sono tragiche, l'equipaggio del rimorchiatore d'altura (dieci italiani, un croato e cinque rumeni) si sente abbandonato, è ammalato e sta impazzendo e sei dei sedici marittimi sono stati portati a terra, probabilmente distribuiti in vari villaggi sulla costa, per nasconderli nel caso di un improbabile blitz delle teste di cuoio italiane. Sarà quindi più difficile recuperarli al momento del rilascio. Non si conoscono i loro nomi.

«Siamo inguaiati, stiamo male. Liberateci altrimenti chiederemo a loro di spararci - si dispera il comandante con una voce che sembra spezzata dalle lacrime -. Ci stiamo ammalando; molti soffrono di depressione e qualcuno di cuore. Non ci sono medicine. Tempo fa erano arrivati farmaci per il fabbisogno (di uno dei membri dell'equipaggio che soffre di cuore, ndr), ma in questa storia infinita sono quasi terminate. Io non sono un dottore; non ci sono dottori; non riesco a curare persone che non so neppure cos'hanno oppure a curarle solo guardandole in faccia. O guardando che danno i numeri. Non riescono più a parlare come persone ragionevoli. Tra l'altro non ragiono più neanche io. E' una situazione assurda e non abbiamo la forza di andare avanti. C'è gente che si sta abbandonando a se stessa. Non c'è più da mangiare. Giusto qualcosa per sostenere il fisico; stiamo lavandoci con acqua di mare. Siamo oltre le nostre forze. Per favore liberateci da questa situazione, altrimenti chiederemo noi stessi che ci ammazzino. Anche loro sono nervosi e ogni tanto sparano. E' successo anche oggi. Una pallottola mi ha sfiorato la testa. Non ce la facciamo più e vogliamo andare a casa; e vogliamo andarci subito. Stiamo facendo sei ore dentro la plancia senza aria condizionata (in quell'area il caldo è insopportabile e le temperature superano con grande facilità i 40 gradi, ndr)». Il comandante Iarloi durante la telefonata racconta che non c'è più acqua potabile ("beviamo acqua bollita") e neppure cibo ("mangiamo riso e pane che ci cucina il cuoco").

Ha poi smentito che siano stati consegnati i viveri che erano stati inviati con un camion partito da Gibuti ("Non abbiamo ricevuto niente") e che invece era stato assicurato fossero arrivati a destinazione. A proposito delle trattative il comandante dice di non sapere nulla: «Non ci informano di questo. Se non ci sono delle trattative che le facessero, che telefonassero a questi signori. Si mettessero d'accordo e facessero quello che devono fare. Sono 51 giorni che lo devono fare». A questo punto irritatissimo Iarloi urla al telefono: «E ci siamo rotti le scatole di stare su 'sta cazzo di barca. Non ce la faccio più e le passo la persona che è accanto a me», cioè il pirata che parla italiano. Proprio lui un paio di giorni prima in un'altra telefonata al Corriere aveva assicurato che non c'è nessuna trattativa in corso. «Questi - aveva dichiarato riferendosi agli ostaggi e manifestando un certo nervosismo -. Vogliono tornare a casa, ma nessuno si è fatto vivo con noi».

 

 

 

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02 giugno 2009
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