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''Quel giudice della nuova Resistenza''. Un articolo di Giorgio Bocca scritto per la Repubblica il 25 maggio 1992

23 maggio 2007

Quel giudice della nuova Resistenza
di Giorgio Bocca (la Repubblica, 25 maggio 1992)

SABATO sera 23 maggio 1992 nella mia casa valdostana lontanissima da Punta Raisi, dove il mare verde si frange sulle scogliere dell'aeroporto, lontanissima dall'Isola delle Femmine sull'autostrada per Palermo, ho visto alla televisione ciò che restava dell'automobile di Giovanni Falcone. Ho capito che nell'Italia disunita nulla era più unito di un giudice siciliano come lui e un giornalista piemontese, nulla era più unito di un giudice che lottava contro la Mafia e un giornalista di passioni risorgimentali e partigiane.
Sto chiedendomi molte cose, di fronte a questi ghiacciai del Ruitor, così lontani dal monte Pellegrino che muta colore ad ogni mutar di vento, ad ogni passar di nubi, come un camaleonte. Qui fra odor di resine e di fieni maggenghi, così diversi da quelli della macchia mediterranea, sto chiedendomi se questo è lo stesso paese che nel 1945 pensavamo restituito per sempre alla libertà e alla democrazia.

Mi chiedo quante delle persone che ho incontrato nei mesi scorsi nei miei viaggi nel sud, magistrati, poliziotti, politici onesti, saranno ancora in vita l'anno prossimo. Mi chiedo quante delle persone che ho incontrato e incontrerò nel sud nei mesi prossimi stiano dalla parte di quelli che hanno ucciso Giovanni Falcone, sua moglie e i tre della scorta. Mi chiedo che governo, che Parlamento siano mai questi in cui chissà quanti deputati devono la loro elezione alla Mafia e sono lì, nei Palazzi, per impedire che lo Stato la combatta. Mi chiedo cosa ci sia di comune fra giudici come Giovanni Falcone, come Livatino, come Ciaccio Montalto, come il commissario Ninni Cassarà, come Della Torre, come Chinnici e giudici che hanno cassato per futili, offensivi difetti di forma più di trecento sentenze e non si accorgevano che nella Suprema Corte c'era un informatore della Mafia, non si chiedevano come nei covi dei più noti mafiosi si trovassero delle agendine con i numeri segreti di alcuni alti magistrati.

E mi chiedo come nessuno si sia accorto, nel ministero della Giustizia, che qualcuno segnalava a Palermo i movimenti di Falcone, che aereo prendeva, quando sarebbe arrivato. Mi chiedo quale male oscuro affligga l'Italia e la Sicilia, perché questo nostro cielo debba sempre oscurarsi di morte. Avevo conosciuto Giovanni Falcone a Palermo, prima che uccidessero Dalla Chiesa, ma di sfuggita; in uno degli uffici della procura, tutti porte blindate, controlli elettronici, lampadine rosse, bip-bip, camerieri in grembiule bianco che svolazzano fra mitra e cartucciere con i vassoi dell'acqua ghiacciata e dei caffé siciliani, non più di un dito, concentrati da restarci secchi. Ma era assieme agli altri del pool, Borsellino, Ayala, Di Lello, e c'era una baraonda.

L'ho conosciuto meglio a Milano nel gennaio dell'83. Indagava sull'assassinio del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa e voleva che gli raccontassi che cosa mi aveva detto nell'ultima intervista, prima di morire. Mi fecero salire nelle stanze blindate dove si riunivano i giudici dell'antiterrorismo, quasi sul tetto; mi fecero passare per tre o quattro controlli e lui era a una scrivania, un signore pacifico, sorridente. Voleva sapere dei cavalieri del lavoro di Catania e cosa esattamente mi aveva detto di loro il generale, cosa non avevo scritto, ripeteva le domande e riascoltava le risposte come se si trattasse di una registrazione, da ascoltarla fino a cogliervi la parola risolutrice, la parola chiave.
Era un mastino cortese che non mollava, mi tenne lì per un'ora e mezzo. Congedandomi, gli chiesi: ''Ma lei spera davvero di trovarli, gli assassini?''. ''Ci provo'', disse lui e questa era la sua filosofia, il suo modo di essere: provarci contro tutto, contro la ''fatalità geografica'' della Sicilia, contro il consenso per la Mafia che si respira, ancora, in Sicilia, contro i magistrati ''terzi'' che predicano la neutralità ma si sono rassegnati alla Mafia, contro i burocrati degli ''equilibri instabili'', quelli che fiutano le mutazioni, le nuove cordate del potere e si adeguano, basta - come dice il giudice Di Lello - ''politicizzare un po' più del normale il proprio ufficio'', capire che una causa va insabbiata, che a un imputato bisogna concedere gli arresti ospedalieri o prender per buona la perizia di infermità mentale.
Capire che un funzionario onesto come Bonsignore andava trasferito di autorità per non aver concesso una licenza a un mafioso, salvo poi dedicare alla sua memoria un'aula al palazzo dei Normanni.

Ma la ragione per cui Giovanni Falcone dovrebbe avere una medaglia d'oro della Resistenza è per quella folle, generosa volontà di resistere al peggio che continua a sopravvivere fra gli italiani, per cui un uomo di cinquantatrè anni va alla morte in un mondo di ladri, di profittatori, di retori, di furbastri che hanno messo a sacco lo Stato e non se ne vanno, e sono lì attaccati con le unghie e con i denti al loro sudicio potere e si permettono oggi di versare lacrime di coccodrillo su Giovanni Falcone come le hanno versate su tutti gli uccisi dalla Mafia in questi decenni.
Una medaglia per dire la riconoscenza, la stima, l'amore di quanti, e non sono pochi in questo paese, hanno continuato a rispettare la dignità umana e lo Stato. Falcone sapeva benissimo di dover morire: ''Il mio conto con 'Cosa nostra' resta aperto. Lo salderò con la mia morte, naturale o meno. Tommaso Buscetta, quando iniziò a collaborare, mi aveva messo in guardia: prima cercheranno di uccidere me, ma poi verrà il suo turno. Fino a quando ci riusciranno''. Ci sono riusciti. E questo uomo abbiamo dovuto difenderlo dalle calunnie dei suoi colleghi, dalle ironie, dalle allusioni dei mascalzoni che più sono mascalzoni e più trovano vetrine televisive e rubriche giornalistiche, dai faccendieri del Consiglio superiore della magistratura.
Povero Falcone.
E poveri noi.

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23 maggio 2007
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