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''Senza Provenzano la mafia cambierà così''. Parla l'ex-ministro dei lavori pubblici di Cosa Nostra Angelo Siino

Articolo di Giuseppe D'Avanzo

14 aprile 2006

(Repubblica.it, 14 aprile 2006)

Quarantatrè anni fa a Corleone. Era il 18 settembre del 1963. Quella notte Luciano Liggio chiude i conti con quei fitusi degli amici del dottor Michele Navarra. Una sparatoria dopo l'altra. Fanno secco Francesco Streva, Biagio Pomilla, Antonino Piraino. Lasciano mezzo morto a faccia in giù Francesco Paolo Streva.
Quella notte - nella notte dei tempi in cui comincia la latitanza di Bernardo Provenzano - nasce anche la favola del picciotto che spara ''come un dio''. Binnu spara come un diavolo. È feroce, ferino, sadico. Dentro Cosa Nostra, di generazione in generazione, dicono che, quella notte a Corleone, prima azzoppano quei cristi e poi, quando sono a terra nel loro sangue, Binnu - ha trent'anni - si fa avanti, appoggia lentamente la canna della pistola alla fronte di quei disgraziati e li fa secchi con il piacere di vedere nei loro occhi l'orrore. Dice Angelo Siino (l'iconografia parla di lui come ''il ministro dei Lavori Pubblici di Cosa Nostra'' fino ai primi anni '90) che, quella buona reputazione di assassino senza compassione, diventa leggenda a Palermo sei anni dopo.

È l'inverno del 1969. È il 10 dicembre, le 6 e 45 del pomeriggio. Cinque uomini con la divisa da poliziotti entrano in una palazzina per uffici a un solo piano di viale Lazio. Devono liquidare Michele Cavataio. Quello è armato. Lo chiamano ''il Cobra'' e, come un serpente, si difende, spara e spara sostenuto dai suoi guardiaspalle, quattro. Uccidono Calogero Bagarella. Feriscono Mimmo Caruso che si ritrova con la sua Mauser Bolo inceppata. Chi lo sa, dice Siino, come sarebbe finita se Bernardo Provenzano non avesse fatto, presto, il suo lavoro. Binnu ha in mano un moschetto automatico Beretta 38/A, capace di 600 colpi al minuto. Fa fuoco all'impazzata. Salva la situazione. A terra resta il Cavataio con quei quattro.
Dice Angelo Siino che di ammazzatine ne sa poco. Dice che conosce meglio il modo di fare gli affari dei mafiosi, i loro legami con la buona società, i canali di riferimento con le burocrazie dello Stato. Dice Siino che quando ha visto per la prima volta Bernardo Provenzano, la storia del picciotto che sparava ''come un dio'' passava ancora di bocca in bocca dentro Cosa Nostra, ma era acqua andata via per sempre, ormai.

Binnu è ora solo lo Zio. Rispettato, temuto, anche amato. Un cervello fino come può essere fine e affiliato l'acume di un contadino che ha patito molta fame. Dice Siino che la prima volta lo vide in una conceria di Bagheria, un luogo dove tutto ricordava la carne marcia e odorava di putrefazione. Era la conceria di Francesco Baiamonte. Lavoravano il perfosfato d'ossa, ossa di animali tritate e acido solforico. Olezzo di morte. Non ci si avvicina allo Zio come se fosse un tipo qualsiasi, dice Siino. Bisogna essere ''presentati'' e puoi essere presentato se sei all'altezza, se hai lo status adeguato. Non era così al tempo e, dice Siino, gli accade di vedere lo Zio da una distanza di molti metri. Piddu Madonia, a bassa voce, senza farsi sentire dagli altri, glielo indica però: ''Quello laggiù è lo Zio!''.
Siino timidamente allunga lo sguardo. Le cose vanno meglio qualche tempo dopo. Più o meno nel 1989. Negli uffici di Gino Scianna al Vallone De Spuches a Bagheria c'è una riunione per decidere l'appalto di una galleria in contrada Sclafani-Bagni. Provenzano deve decidere. Non è allora l'ometto rattrappito di oggi. È vero, nessuno lo ha mai visto con una cravatta al collo se non in quelle ingiallite foto segnaletiche della polizia, ma a quel tempo - un tempo non troppo lontano, meno di venti anni fa - lo Zio veste sempre casual, ma i suoi pullover sono Ballantyne, di cachemire, e i pantaloni e le scarpe e le sciarpe sempre firmate.
Questa storia del contadino che non riesce a star lontano dalla sua vita arcaica è una favola, dice Siino. Quando lo Zio era latitante a Capo Mulini a Catania sotto la protezione di un Cavaliere del Lavoro la sua vita è allegra e movimentata. Non è che se la passa male nemmeno a Bagheria dove si nasconde più o meno per due decenni. Non rinuncia nemmeno a qualche scappatella. Un'estate Pino Lipari gli offre la sua barca per una crociera e lo Zio se ne va a prendere il sole tra le isole Egadi e poi in Tunisia con una sua amichetta.

Provenzano e Bagheria (il mandamento di Bagheria) sono stati ''una sola cosa''. Provenzano ha fatto la fortuna di Bagheria e Bagheria di Provenzano. Anche Riina, dice Siino, riconosceva che era meglio girare intorno a quelle terre. U' zù Totò diceva ai suoi: ''A Bagheria si saluta e si va via''. Provenzano da quelle parti ha fatto tutti i ricchi. I profitti dell'agricoltura e degli aranceti sono finiti nel saccheggio edilizio di quella perla del barocco; e i profitti del mattone nella sanità; e i piccioli della sanità ancora nei grandi appalti e nell'ecologia dello smaltimento rifiuti. Tutti ricchi sono diventati, dice Siino. È a Bagheria che Provenzano mette a punto, per così dire, il suo ''metodo di governo'' che, al contrario della ''politica'' di Riina, include e non esclude.
Dentro anche le cooperative rosse e quel tipo, Tronci, che dice di essere il rappresentante delle Botteghe Oscure. Dentro i politici che ci stanno, gli assessori che si rendono disponibili, i professionisti che non aspettano altro, i segretari comunali che non hanno scelta. Provenzano pensa a far soldi. Riina a far la guerra. E non è che zù Totò, dice Siino, non lo sappia, non se ne accorga, non se ne lamenti. ''Binnu - dice il Corto - vuole fare niente, vuole fare morire tutti... pensa solo ai piccioli e alle sue imprese''.
La verità, dice Siino, è che Provenzano prima delle stragi si mette a portello, si mette alla finestra a guardare quel che succede. Alla finestra e ben protetto e dice: fate, fate. Quelli fanno - uccidono Lima, Falcone, Borsellino, Ignazio Salvo - e organizzano le bombe di Roma, Firenze, Milano e si consumano e lo Zio attende ancora per muoversi. Attende che acchiappino anche Leoluca Bagarella, capace di sparare e poi parlare, e finalmente Provenzano monta in cattedra e cambia il gioco.

Con Riina lo schema è chiaro: di ogni appalto il 2% va ai politici; il 2% a Cosa Nostra (Riina lo divide tra l'acquisto di armi e gli avvocati dei picciotti in carcere); il 2% agli organismi di controllo (corte dei conti, commissioni e tribunali vari); lo 0,8% nella tasca del Corto, suo bonus personale.
Provenzano lo manda per aria. Non chiede niente. Ha le sue imprese, e gli basta. Ogni tanto qualche altro gli offre una quota della sua azienda così per devozione o ringraziamento o ingraziamento. Dice Siino che il vero potere di Provenzano dentro la Cosa Nostra non ha mai avuto la natura violenta della mano di Salvatore Riina, ma sempre la forza della convenienza e dell'equilibrio. Provenzano divide la regione in ''grandi mandamenti''. Non c'è più la ''commissione'', non c'è più una ''cupola''. Bisogna trovare un altro modo per evitare conflitti. Affidandosi a pochi uomini - cinque in tutto, Pino Lipari, Tommaso Cannella, Lo Piccolo, Messina Denaro, Raccuglia - escogita, dice Siino, una sorta di ''welfare fiscale''.
I mandamenti più ricchi, con più opportunità e affari offrono parte dei loro profitti ai mandamenti meno fortunati cosicché gli introiti dei mandamenti, alla fine della conta, risultato bilanciati e tutti sono soddisfatti. Così vanno letti i ''pizzini'' che scrive Provenzano. Autorizza. Non autorizza. Invita alla cautela. Chiede buon senso. Consiglia generosità per conservare in equilibrio i conti di tutti. Il suo potere, dice Siino, non è quello di un Capo dei Capi, ma la riconosciuta influenza di un punto di equilibrio. Anche se non ci sono guerre di mafia, è un metodo di lavoro che opprime ancora di più la società, spiega Alfredo Galasso che, parte civile nei grandi processi politici siciliani, cura ora il destino dell'ex-ministro di Lavori pubblici di Cosa Nostra.

La mafia siciliana ormai non conta e non passa. Non ci sono più i grandi traffici internazionali, i contrabbandi, la droga, i cartelli intercontinentali. Quindi, non c'è più bisogno di chi lo sa quale altissima protezione politica e finanziaria. Si cava il sangue soltanto dalla Sicilia e, dice Alfredo Galasso, si spreme ogni piega, in ogni comune e in ogni provincia e in ogni amministrazione locale. Nessuno si può chiamare fuori. Ognuno sente la pressione. L'assessore, il consigliere comunale, la burocrazia amministrativa, il maresciallo dei carabinieri del paesuccio e il grande notaio di città, il farmacista, l'avvocato, il piccolo imprenditore, il commerciante al minuto, il grossista, il primario ospedaliero.
La Cosa Nostra di Bernardo Provenzano, dice Siino, è più oppressiva perché è la mafia della porta accanto, è la Cosa Nostra che incontri al bar, dal barbiere, dal dentista. È una mafia meno rumorosa, meno assassina e violenta ma capace di controllare un comune e i suoi abitanti come un pastore il suo gregge.

Ora che Provenzano, dopo quella notte a Corleone del settembre del 1963, è in galera, Cosa Nostra dovrà cercarsi, se non un altro capo, per lo meno un altro modello organizzativo. Chi potrebbe essere quel capo? E quale sarà il modello organizzativo? Voci di dentro in Cosa Nostra propongono tre quadri.
Il primo è il più probabile, in tempi brevi. Cosa Nostra si calabresizza. Come le 'ndrine calabresi, le famiglie mafiose cureranno i loro affari territoriali in autonomia dalle famiglie di altre province. Ognuno per sé. Dopo il welfare fiscale, prende corpo il ''federalismo fiscale''. I soldi che spremi dal tuo territorio, te li tieni. Gli altri si arrangeranno con i propri mezzi. Nessun controllo verticale. Nessuna ''politica'' della ''commissione''. Nessuna commissione. Nessun ''punto di equilibrio''. Morto il papa, non se ne fa un altro. La ''calabresizzazione'' di Cosa Nostra, dicono le voci di dentro, è ad alto rischio. A ogni appalto, a ogni affare possono deflagrare gli odi antichi, le eterne ambizioni, le avidità recenti. Un vivamaria, una nuova guerra di mafia, è nelle cose a meno che...
A meno che (secondo quadro) non cresca il carisma e la reputazione di un homo novus. Le voci di dentro dicono che quell'uomo può essere Matteo Messina Denaro non Totò Lo Piccolo, testa corta. Messina Denaro, invece, può farcela, dicono. È giovane. È deciso. Ha uso di mondo. È trapanese di Castelvetrano, ma i suoi rapporti con Palermo sono buoni e stretti e di sangue: ha sposato una Guttadauro, famiglia molto vicina ai Graviano di Brancaccio e a ''chi conta'' nella politica regionale. Naturalmente, il prestigio di Matteo Messina Denaro può anche non evitare il vivamaria.
Potrebbe non essere, dicono cinici dentro Cosa Nostra, la soluzione peggiore. Anzi, c'è chi attende proprio un repulisti per depurare Cosa Nostra dalla sfrazza, dalla feccia, corleonese. È il terzo quadro. Le famiglie di oggi vanno alla guerra. Sugli spalti già attendono i vincitori di domani, gli sconfitti di ieri, i ''principi'' regnanti degli anni '80 defenestrati a suon di pallettoni e mitra e strangolamenti dai viddani di Totò Riina.
Il figlio di Totuccio Inzerillo, giovane amato boss ammazzato dai corleonesi, è a Palermo. Rispettatissimo, come la nuova generazione della famiglia Teresi di Santa Maria del Gesù (negli anni '80, misero il lutto per la morte di Mimmo, il più fidato uomo di Stefano Bontade).
Il possibile ritorno al passato sarebbe sostenuto a Milano e a Roma dalla presenza sempre più attiva dei Bono, dei Martello, dei Fidanzati, quelli di sempre, quelli di allora. Come dire che, dopo un quarto di secolo, la storia ritornerebbe là da dove è cominciata. A Palermo. Nelle mani delle famiglie del ''bel tempo andato'' distrutto dai corleonesi. Tutto cambia. Nulla cambia. Tommaso Buscetta ne avrebbe riso.

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14 aprile 2006
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