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"Servitore infedele dello Stato"

Chiesti nove anni di carcere per l'ex vicecomandante del Ros, il generale dei carabinieri Mario Mori

25 maggio 2013

Li definisce "servitori infedeli dello Stato", li accusa di avere tradito la fedeltà giurata alla Costituzione, alle leggi e all'Arma dei carabinieri: premesse che non possono che portare a una richiesta di pena pesante.
Così, al termine di una requisitoria durata quattro udienze, il pm Nino Di Matteo chiede la condanna a 9 anni di carcere dell'ex vicecomandante del Ros, il generale dei carabinieri Mario Mori, e a 6 anni e 6 mesi del colonnello Mauro Obinu. Entrambi sono accusati di avere favorito la latitanza del boss Bernardo Provenzano in nome del patto che pezzi dello Stato, dal '92, avrebbero stretto con Cosa nostra. Entrambi, per l'accusa, meritano anche l'interdizione perpetua dai pubblici uffici.
La pena chiesta è esemplare, lo sa bene il magistrato che ha istruito il processo. "Non è stato facile - dice ai giudici della quarta sezione del tribunale - accusare ufficiali con i quali avevamo lavorato, non è agevole affrontare il rischio che il processo sia inteso come un atto d'accusa a tutto il Ros dei carabinieri". Ma gli elementi a carico degli imputati, per l'accusa, sono "gravi, precisi e convergenti al di là di ogni ragionevole dubbio" e portano alla conclusione che Mori e Obinu, "contribuirono ad adottare una politica criminale sciagurata che portò alla mediazione e finì per favorire l'ala ritenuta più moderata di Cosa nostra, quella di Bernardo Provenzano, nella consapevolezza che questi avrebbe scelto la linea del basso profilo e della normalizzazione e messo fine alla strategia stragista".

Che il fine fosse quello di far cessare la violenza mafiosa che aveva portato prima alle stragi di Capaci e Via D'Amelio, poi a quelle del Continente, per il pm non cambia le cose. E non attenua la gravità delle accuse che non sono il tentativo di "riscrivere la storia", precisa Di Matteo, ma un mezzo per arrivare alla verità.
Il racconto del pm analizza il mancato blitz che, per l'accusa, avrebbe potuto portare alla cattura di Provenzano già ad ottobre del 1995 e che, invece, venne bloccato dai vertici del Ros che al capomafia di Corleone avevano garantito l'impunità. Un rapporto, quello tra i carabinieri e il padrino, passato attraverso la mediazione di Vito Ciancimino, ex sindaco mafioso di Palermo e padre di Massimo, personaggio controverso diventato un teste chiave del processo per favoreggiamento a Mori e dell'inchiesta sulla trattativa.
Dei contatti tra l'Arma e don Vito sapevano anche esponenti delle istituzioni come l'ex guardasigilli Claudio Martelli, l'ex direttore generale di Via Arenula, Liliana Ferraro, e Paolo Borsellino che, proprio per la sua opposizione ferma al dialogo con Cosa nostra sarebbe stato ucciso.
Di Matteo ricorda le reticenze istituzionali dei tanti politici finiti sul banco dei testi e sentiti nell'indagine sulla trattativa. E ripercorre le fasi del "patto scellerato" passato attraverso la sostituzione di Vincenzo Scotti con Nicola Mancino al vertice del Viminale e l'avvicendamento al Dap. Due mosse politiche che, per l'accusa, avrebbero allontanato dal ministero dell'Interno un personaggio scomodo per la mafia e messo alla guida dal dipartimento dell'amministrazione penitenziaria due personaggi, Adalberto Capriotti e Francesco Di Maggio, favorevoli a un sostanziale ammorbidimento del carcere duro per i boss. Un capitolo, quello del 41 bis, al centro del cosiddetto papello, l'elenco che, a giugno del 1992, Totò Riina avrebbe fatto avere allo Stato per fare cessare le bombe.

La parola passa ora alla difesa. Il 7 giugno Mario Mori salirà sul banco per le dichiarazioni spontanee. Il 10 prenderanno la parola i legali. Ma già oggi in sua difesa è intervenuto il colonnello Sergio De Caprio, il Capitano Ultimo che catturò Riina: "La richiesta di condanna è chiara e si commenta da sola. Il problema è capire chi, tra chi accusa, abbia preso i trenta denari". [Informazioni tratte da ANSA, Lasiciliaweb.it]

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25 maggio 2013
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