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50 anni fa la prima rivolta tibetana

Il 10 Marzo 1959 la popolazione tibetana si ribellò all'esercito comunista cinese...

10 marzo 2009


Opera di Francesca Leone

La repressione cinese in Tibet ha raggiunto i livelli toccati nel decennio della Rivoluzione culturale (1966-1976). Lo denuncia un rapporto dell'International Campaign for Tibet (Ict), diffuso ieri, vigilia del 50° anniversario della rivolta del Tibet, avvenuta il 10 marzo 1959. Il rapporto comprende una lista di 600 prigionieri politici arrestati nel corso dell'ultimo anno dopo le proteste del marzo 2008. Il documento cita oltre 130 pacifiche proteste condotte in Tibet nel corso dell'ultimo anno e denuncia l'arresto di centinaia di monaci dei monasteri di Sera, Drepung e Ganden, chiusi dalle autorità.
Sono inoltre circa 1.200 i tibetani scomparsi nel corso di quest'anno. Le forze di sicurezza hanno sparato il 26 febbraio a un monaco che si era dato fuoco e il 1° marzo un centinaio di monaci ha protestato contro il divieto di pregare nel loro monastero...

Ricordiamo le 87.000 vittime dell'esercito maoista.
50° ANNIVERSARIO DELLA RIVOLTA DEL  TIBET

di Francesco lo Cascio (Rete Lilliput)

Il 10 Marzo 1959 la popolazione tibetana si ribellò all'esercito cinese che già da un decennio era entrato in Tibet. La voce che i cinesi stessero per rapire l'allora giovanissimo XIV Dalai Lama scatenò la rivolta e avviò una protesta pacifica che fu repressa con ferocia dalle forze cinesi e provocò la morte di 87.000 tibetani. Di lì a poco, il Dalai Lama riparò in India iniziando così i fatto di fatto la diaspora del popolo tibetano.
Nel marzo 2008, i tibetani esasperati dai continui soprusi e dalla negazione di ogni fondamentale libertà, insorsero con una serie di manifestazioni spontanee a Lhasa e in tutto il Tibet. I cinesi risposero con la stessa brutalità: i morti furono centinaia e, a tutt'oggi, si contano oltre 8.000 arresti.

La repressione continua e la tensione resta molto alta.

Il 10 marzo 2008 è partita da McLeod Ganj (Dharamsala), in India, una "marcia di ritorno in Tibet". L'evento più importante del Tibetan People's Uprising Movement, un movimento lanciato da cinque organizzazioni tibetane in esilio: il Tibetan Youth Congress, la Tibetan Women's Association, il Gu-Chu-Sum Movement of Tibet e gli Students for a Free Tibet. Tre sono le richieste che queste organizzazioni hanno fatto al governo della Repubblica popolare cinese:
1. Che venissero rimossi tutti gli ostacoli che impediscono un ritorno senza condizioni del Dalai Lama in Tibet.
2. Che il governo cinese iniziasse a smantellare quell'occupazione coloniale del Paese delle nevi che dura da quasi sessant'anni.
3. Che la Cina liberi tutti i prigionieri politici tibetani, primo fra tutti il giovane Panchen Lama, Gedhun Choeky Nyima.

Terminate le olimpiadi di Pechino, c'è il rischio che cessi l'attenzione internazionale sul Tibet.
Oggi  la Comunità Tibetana in Italia, insieme ad altre associazioni sensibili alla causa, promuove a Roma una manifestazione per far parlare ancora del Tibet. Altre iniziative si svolgeranno a Milano, Venezia e Padova. Forse sarebbe stato opportuno che analoghe iniziative fossero state assunte anche dalle istituzioni cittadine e siciliane, che dei valori di libertà ed autonomia vogliono tanto fregiarsi.
E' troppo chiedere almeno una bandiera tibetana a Palazzo delle Aquile o a Palazzo dei Normanni?
Passato l'anniversario, non cesseranno certo le occasioni per una positiva assunzione di responsabilità.

MEZZO SECOLO DI SOFFERENZE
Scritto dal Dalai Lama (Repubblica.it, 10 marzo 2009)

Oggi è il cinquantesimo anniversario della pacifica rivolta del popolo tibetano contro la repressione della Cina comunista in Tibet. Dallo scorso marzo si sono diffuse pacifiche proteste in tutto il Tibet. La maggior parte dei partecipanti erano giovani nati e cresciuti dopo il 1959, i quali non hanno mai vissuto né visto un Tibet libero. Questi cinquanta anni hanno portato indescrivibili sofferenze e distruzioni alla Terra del popolo tibetano.
Anche oggi i tibetani in Tibet vivono con una paura costante e le autorità cinesi sospettano costantemente di loro. Oggi la religione, la cultura, la lingua e l'identità, che le successive generazioni di tibetani hanno considerato più preziose che le loro vite, sono a rischio d'estinzione; in breve, il popolo tibetano, è stato considerato come un criminale meritando soltanto di essere messo a morte.

Noi abbiamo bisogno di guardare al futuro e lavorare per i nostri benefici. Rivolgiamo il nostro sguardo verso una legittima e concreta autonomia che abiliterebbe i tibetani a vivere entro la struttura della Repubblica Popolare Cinese. Soddisfacendo le aspirazioni del popolo tibetano consentirebbe alla Cina di ottenere stabilità e unità. Per quanto ci riguarda, noi non stiamo avanzando nessuna richiesta basata sulla storia. Guardando indietro alla storia, non c'è nessun paese oggi, Cina inclusa, il cui status territoriale è rimasto immutato, né che possa essere soggetto a modifica.
Sono deluso per il fatto che le autorità cinesi non abbiano risposto in maniera appropriata ai nostri sinceri sforzi per migliorare l'autonomia regionale per tutti i tibetani, come stabilito nella Costituzione della Repubblica Popolare Cinese. A margine dell'attuale processo del dialogo sino-tibetano che non ha portato a nessun risultato concreto, c'è stata una violenta repressione sulle proteste dei tibetani che hanno scosso l'intero Tibet da marzo dello scorso anno.
Sin dall'antichità il popolo cinese e quello tibetano sono stati vicini. Anche nel futuro noi dobbiamo vivere insieme. Quindi è molto importante per noi coesistere in amicizia gli uni con gli altri. Dall'occupazione del Tibet, i Comunisti Cinesi hanno fatto una propaganda distorta sul Tibet e sulla sua gente. Di conseguenza, ci sono nella popolazione cinese poche persone che hanno una vera comprensione sui fatti del Tibet. È infatti molto difficile per loro conoscere la verità. Ci sono anche leader cinesi di estrema sinistra che dallo scorso marzo hanno fatto una diffusa propaganda con il solo scopo di creare astio tra il popolo cinese e quello tibetano. Tristemente, come risultato, si è fatta spazio nelle menti di alcuni nostri fratelli e sorelle cinesi una impressione negativa dei tibetani.
Quindi vorrei esprimere un forte desiderio affinché i nostri fratelli e sorelle cinesi non siano influenzati da questa propaganda, ma invece comprendano gli accadimenti del Tibet in modo imparziale, così che non ci siano divisioni tra di noi. I tibetani dovrebbero anche continuare a lavorare per l'amicizia con il popolo cinese.

Guardando indietro ai 50 anni dell'esilio, noi abbiamo sperimentato molti alti e bassi. Comunque sia, il fatto che la questione tibetana sia ancora aperta e che la comunità internazionale si stia interessando molto è senza dubbio un traguardo. Vista da questa prospettiva, io non ho alcun dubbio che prevarrà la giustizia per la giusta causa del Tibet, se noi continuiamo sul cammino della verità e della non violenza.
Dico sempre che dobbiamo sperare per il meglio e prepararci per il peggio. Da qualsiasi punto lo guardiamo sia dalla prospettiva globale che dal contesto degli eventi in Cina, ci sono ragioni per noi che ci fanno sperare in una veloce risoluzione della questione tibetana. Ma dobbiamo anche essere preparati nel caso in cui la lotta per il Tibet si protragga per un tempo più lungo.

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10 marzo 2009
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