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A Bengasi la folla grida ''Morte all'Italia''

Mentre in Libia il Consolato italiano è stato distrutto l'ex ministro Calderoli difende le sue posizioni

20 febbraio 2006

A Bengasi la folla grida: ''Morte all'Italia'', ''sputiamo sugli italiani!'', ''maiale Calderoli!''. Gli scontri che si sono scatenati durante i funerali degli undici morti della sparatoria di venerdì scorso, scoppiata per difendere il Consolato italiano preso d'assalto da una folla inferocita, hanno mostrato quale sentimento prova una parte della popolazione libica nei confronti di quell'Italia che ha permesso ad un suo ministro di offendere il sentimento della cultura islamica. Lo hanno mostrato meglio delle puntuali e distensive parole diplomatiche che la alte cariche di Libia e Italia si sono scambiate nei giorni scorsi.
Due ore di guerriglia a Bengasi, durante i funerali. Tricolori in fiamme e nuovo assalto al consolato che è stato completamente distrutto.

Un consolato abbandonato alla furia di centinai di fanatici, oramai vuoto e pronto ad accogliere qualsiasi forsennata follia.
''Non si poteva far altro'', dice Giovanni Pirrello, console italiano in Libia che da ieri non ha più consolato. ''Quelli sono entrati come furie. Se la sono data a gambe anche i poliziotti. E' tutto distrutto''.
Un attacco di notte, rovesciati i tavoli e i computer. Una ripassata la mattina, a strappare libri e tendaggi. Il fuoco, le asce. L'hanno sconquassato quel palazzo, e il console Pirrello ne parla come d'un figlio aggredito: ''Ho visto la mia auto carbonizzata. Hanno fatto irruzione negli uffici, sfasciato ogni cosa. Hanno distrutto gli schedari, i documenti. Niente di segreto. Però c'erano le tracce della nostra presenza in Libia''. Gli italiani in Libia, adesso non hanno neanche più la memoria.
''Un gruppetto, temo, ha fatto un macello nell'archivio storico. Il consolato italiano di Bengasi è sempre stato un pezzo della nostra storia. C'erano gli atti di nascita, i contratti, i certificati, i documenti e i registri d'anteguerra. Hanno incendiato tutto quel che capitava sotto mano. Non è rimasto più niente, mi dicono''.

Alla folla inferocita di Bengasi non basta che siano cadute due teste: ''Questi morti sono martiri nostri!'', cerca di placare gli animi un funzionario di Tripoli: ''Sono vittime di due ministri incapaci: il vostro (Calderoli, ndr) che ha provocato tutto questo e il nostro che non ha saputo controllare la situazione (il ministro dell'Interno libico, ndr)''.
La folla che accompagna i morti, quel mostro senza testa che se ne infischia della diplomazia, alza i pugni in cielo, insieme alle maledizioni.
Il tricolore viene bruciato. Un gruppo comincia una sassaiola anche contro la chiesa cattolica.

Intanto l'Italia non ha più fra i suoi rappresentanti Roberto Calderoli.
''Mi è sempre andata stretta la cravatta di ministro a cui ho sempre preferito 'le braghe corte', per cui tante volte sono stato contestato e quindi oggi, dopo le dimissioni mi sento più leggero...''.
A Bengasi brucia il tricolore e l'insensatezza integralista, in Italia il leghista Calderoli non rinuncia all'autoironia e nell'editoriale pubblicato sul quotidiano leghista 'La Padania', difende ad oltranza il suo ''atto provocatorio'' nel nome della ''libertà d'espressione'' e biasima le parole del premier Silvio Berlusconi.
L'ex ministro per le Riforme scrive, infatti, in un passaggio del suo intervento, che si fa da parte ''come ministro, ma non certo come militante'', aggiungendo: ''E questo lo faccio a maggior ragione alla luce delle incomprensibili dichiarazioni di oggi (ieri, ndr) del presidente del Consiglio, che vorrebbe attribuire a me la responsabilità di quanto successo e non al fanatismo islamico''.

Insomma, sgravato dal ''peso'' ministeriale Calderoli annuncia: ''La mia battaglia a difesa dei principi sacri che mi hanno inculcato i miei genitori e i miei nonni inizia ora, finalmente non più ministro e libero di difendere questi ideali e questi valori. Non attaccherò mai una religione in quanto tale e anche solo la semplice ironia sulla stessa mi fa orrore: forse però avrei dovuto difendere questo principio sostenendo l'orgoglio di essere cristiano piuttosto che difendere la libertà di pensiero, e quindi di satira, che è stata interpretata come attacco; ma rivendico il mio orgoglio di essere cristiano e, come tale, perdono chi, per paura o per il ricatto, non difende la propria identità e i propri ideali''.
Calderoli in un altro passaggio scrive: ''Di Don Abbondio è pieno il mondo sia in maggioranza che in opposizione, anche se in quest'ultima c'è chi con il terrorismo ci sguazza; sicuramente con gente del genere i mercanti dal tempio non li avrebbe scacciati nessuno''.
''Noi non vogliamo fare paralleli con Gesù, come fa Berlusconi - scrive ancora Calderoli - perché siamo uomini modesti, che si fanno il segno della Croce e si inginocchiano quando sentono quel nome, ma a cui va il sangue alla testa quando qualcuno sostiene che Gesù è il suo servo oppure che le bombe, le decapitazioni, gli assassini o le persecuzioni sono cose dovute in nome di una religione. Davanti a cose del genere non mi sento che di affermare, anche se la frase è già stata detta da qualcuno che mi fa ribrezzo, che 'Io non ci sto' ''.

- "Il mio caso non esiste è stato Silvio a crearlo". Calderoli intervistato da Roberto Bianchin (Repubblica.it)

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20 febbraio 2006
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