A Paolo Borsellino
Diciannove luglio 1992, Palermo, via D'Amelio: la mafia trucidava il giudice Paolo Borsellino
L'estate palermitana di 12 anni fa, fu un'estate calda. Quell'anno, era il 1992, il sole sulle teste dei palermitani picchiava già da diversi mesi, e oltre al sole a picchiare sulla testa, c'era il pensiero di un fatto avvenuto un venerdì di maggio: la mafia aveva fatto esplodere il giudice Giovanni Falcone.
Quella fu un'estate brutta.
Il 19 luglio di quell'anno, a Palermo era una domenica calda.
Il giudice Paolo Borsellino, il più stretto collaboratore di Giovanni Falcone, non ha la competenza delle indagini sulla morte del suo collega e amico, ma quella domenica mattina il procuratore di Palermo, Pietro Giammanco, gli comunica telefonicamente che finalmente potrà occuparsi anche delle indagini su Palermo e provincia, come lui da tempo richiedeva.
E' una buona notizia. E' una buona domenica.
Borsellino pranza in famiglia nella casa di Villagrazia di Carini. Poi, nel tardo pomeriggio, decide di far visita all'anziana madre. Tra il mare e la casa della signora Maria a Palermo c'è un'autostrada, e quel pomeriggio le tre "Croma" blindate su cui viaggiano il giudice e la sua scorta transitano vicino allo svincolo di Capaci, dove una striscia di vernice rosso sangue sul guard-rail già ricorda la strage del 23 maggio. Arrivati in città, la comitiva raggiunge via Mariano D'Amelio, una strada chiusa, ostruita al fondo da un muro di tufo che recinta un cantiere edile. Paolo Borsellino fa in tempo a citofonare al numero civico 21, quando alle sue spalle esplode una Fiat 126 carica di tritolo.
Muore sul colpo, e con lui i sei uomini della scorta: Antonio Vullo, Emanuela Loi, Walter Cusina, Claudio Traina, Vincenzo Li Muli e Agostino Catalano.
Dodici anni dopo lo vogliamo ricordare, come facciamo ogni anno, e vogliamo farlo con una serie di documenti ed interviste che segnano il lavoro, e l'importanza di esso per la cultura della legalità in Sicilia.
Nel nome della LEGALITA' e della MEMORIA, unici elementi che possono salvare la Sicilia, rendiamo omaggio al Giudice Paolo Borsellino e agli agenti della sua scorta.
Di seguito pubblichiamo la lunga (e ultima) intervista che il giudice Paolo Borsellino rilasciò ai giornalisti Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo.
Questa intervista, interamente videoregistrata a casa del magistrato, non fu mai trasmessa in televisione. Solo nel 1994 (due anni dopo la morte di Borsellino) il settimanale l'Espresso ne pubblicò il testo integrale, e solo nel 2000 il canale RaiNews 24 ne ha trasmesso una riduzione di 30 minuti (l'intervista originale durava 50 minuti).
Un cavallo per Marcello
di Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo
Espresso, 8 aprile 1994
Anni Settanta. La mafia porta al nord capitali. E uomini-ponte. Come Mangano. Che trova un posto grazie a Dell’Utri. Ecco l’analisi-racconto del magistrato di Palermo.
"Gli imputati del maxiprocesso erano circa 800: furono rinviati a giudizio 475".
Scelta l’inquadratura - Paolo Borsellino è seduto dietro la sua scrivania - Jean Pierre Moscardo e Fabrizio Calvi cominciano l’intervista domandando al giudice i dati sul maxiprocesso di Palermo del febbraio ‘86. Il giudice ricorda con orgoglio di aver redatto, nell’estate dell’85, la monumentale sentenza del rinvio a giudizio. Subito dopo, i due giornalisti chiedono notizie su uno di quei 475, Vittorio Mangano. E’ solo la prima delle tante domande sul mafioso che lavorava ad Arcore: passo dopo passo, Borsellino - che con Giovanni Falcone rappresentava un monumentale archivio di dati sulle cosche mafiose - ricostruisce il profilo del mafioso. Racconta dei suoi legami, delle connessioni, e delle sue telefonate intercettate dagli inquirenti in cui si parla di "cavalli".
Come la telefonata di Mangano all’allora presidente di Publitalia e attuale senatore di Forza Italia, Marcello Dell’Utri (dal rapporto Criminalpol n. 0500/C.A.S. del 13 aprile 1981 che portò al blitz di San Valentino contro Cosa Nostra, ndr).
E ancora: domande sui finanzieri Filippo Alberto Rapisarda e Francesco Paolo Alamia, uomini a Milano di Vito Ciancimino. Infine sullo strano triangolo Mangano, Berlusconi, Dell’Utri.
Quel pomeriggio di maggio di dodici anni fa, Paolo Borsellino non nasconde la sua amarezza per come certi giudici e certe sentenze della Corte di Cassazione hanno trattato le dichiarazioni di pentiti come Antonio Calderone («... a Catania poi li hanno prosciolti tutti... quella della Cassazione è una sentenza dirompente che ha disconosciuto l’unitarietà dell’organizzazione criminale di Cosa Nostra...»); ma soprattutto, grazie alle sue esperienze di magistrato e come profondo conoscitore delle strategie di Cosa Nostra, l’unico al quale Falcone confidava tutto, Borsellino offre una chiave di lettura preziosa della Mangano connection che sembra coincidere con le più recenti dichiarazioni dei pentiti. Quella che segue è la trascrizione letterale (comprese tutte le ripetizioni e le eventuali incertezze lessicali tipiche del discorso diretto) di alcuni capitoli della lunga intervista filmata, quasi cinquanta minuti di registrazione.
Tra queste centinaia di imputati ce n’è uno che ci interessa: tale Vittorio Mangano, lei l’ha conosciuto?
"Sì, Vittorio Mangano l’ho conosciuto anche in periodo antecedente al maxiprocesso, e precisamente negli anni fra il ‘75 e l’80. Ricordo di avere istruito un procedimento che riguardava delle estorsioni fatte a carico di talune cliniche private palermitane e che presentavano una caratteristica particolare. Ai titolari di queste cliniche venivano inviati dei cartoni con una testa di cane mozzata. L’indagine fu particolarmente fortunata perché - attraverso dei numeri che sui cartoni usava mettere la casa produttrice - si riuscì rapidamente a individuare chi li aveva acquistati. Attraverso un’ispezione fatta in un giardino di una salumeria che risultava aver acquistato questi cartoni, in giardino ci scoprimmo sepolti i cani con la testa mozzata. Vittorio Mangano restò coinvolto in questa inchiesta perché venne accertata la sua presenza in quel periodo come ospite o qualcosa del genere - ora i miei ricordi si sono un po' affievoliti - di questa famiglia, che era stata autrice dell’estorsione. Fu processato, non mi ricordo quale sia stato l’esito del procedimento, però fu questo il primo incontro processuale che io ebbi con Vittorio Mangano. Poi l’ho ritrovato nel maxiprocesso perché Vittorio Mangano fu indicato sia da Buscetta che da Contorno come uomo d’onore appartenente a Cosa Nostra".
Uomo d'onore di che famiglia?
"L'uomo d'onore della famiglia di Pippo Calò, cioè di quel personaggio capo delle famiglie palermitane".
E questo Vittorio Mangano faceva traffico di droga a Milano?
"Il Mangano, di droga... (Borsellino comincia a rispondere, poi si corregge, ndr), Vittorio Mangano, se ci vogliamo limitare a quelle che furono le emergenze probatorie più importanti, risulta l’interlocutore di una telefonata intercorsa fra Milano e Palermo nel corso della quale lui, conversando con un altro personaggio delle famiglie mafiose palermitane, preannuncia o tratta l’arrivo di una partita d’eroina chiamata alternativamente, secondo il linguaggio che si usa nelle intercettazioni telefoniche, come "magliette" o "cavallo". Il Mangano è stato poi sottomesso al processo dibattimentale ed è stato condannato per questo traffico di droga. Credo che non venne condannato per associazione mafiosa - beh, sì per associazione semplice - riporta in primo grado una pena di 13 anni e 4 mesi di reclusione più ;700 milioni di multa... La sentenza di Corte d’Appello confermò questa decisione di primo grado...".
Quando ha visto per la prima volta Mangano?
"La prima volta che l’ho visto anche fisicamente? Fra il ‘70 e il ‘75".
Per interrogarlo?
"Sì, per interrogarlo".
E dopo è stato arrestato?
"Fu arrestato fra il ‘70 e il ‘75. Fisicamente non ricordo il momento in cui l’ho visto nel corso del maxiprocesso, non ricordo neanche di averlo interrogato personalmente. Si tratta di ricordi che cominciano a essere un po’ sbiaditi in considerazione del fatto che sono passati quasi 10 anni".
Dove è stato arrestato, a Milano o a Palermo?
"A Palermo la prima volta (è la risposta di Borsellino; ai giornalisti interessa capire in quale periodo il mafioso vivesse ad Arcore, ndr)".
Quando, in che epoca?
"Fra il ‘75 e l’80, probabilmente fra il ‘75 e l’80".
Ma lui viveva già a Milano?
"Sicuramente era dimorante a Milano anche se risulta che lui stesso afferma di spostarsi frequentemente tra Milano e Palermo".
E si sa cosa faceva a Milano?
"A Milano credo che lui dichiarò di gestire un’agenzia ippica o qualcosa del genere. Comunque che avesse questa passione dei cavalli risulta effettivamente la verità, perché anche nel processo, quello delle estorsioni di cui ho parlato, non ricordo a che proposito venivano fuori i cavalli. Effettivamente dei cavalli, non "cavalli" per mascherare il traffico di stupefacenti".
Ho capito. E a Milano non ha altre indicazioni sulla sua vita, su cosa faceva?
"Guardi: se avessi la possibilità di consultare gli atti del procedimento molti ricordi mi riaffiorerebbero...".
Ma lui comunque era già uomo d’onore e negli anni Settanta?
"... Buscetta lo conobbe già come uomo d’onore in un periodo in cui furono detenuti assieme a Palermo antecedente gli anni Ottanta, ritengo che Buscetta si riferisca proprio al periodo in cui Mangano fu detenuto a Palermo a causa di quell’estorsione nel processo dei cani con la testa mozzata... Mangano negò in un primo momento che ci fosse stata questa possibilità d’incontro... ma tutti e due erano detenuti all’Ucciardone qualche anno prima o dopo il ‘77".
Volete dire che era prima o dopo che Mangano aveva cominciato a lavorare da Berlusconi? Non abbiamo la prova...
"Posso dire che sia Buscetta che Contorno non forniscono altri particolari circa il momento in cui Mangano sarebbe stato fatto uomo d’onore. Contorno tuttavia - dopo aver affermato, in un primo tempo, di non conoscerlo - precisò successivamente di essersi ricordato, avendo visto una fotografia di questa persona, una presentazione avvenuta in un fondo di proprietà di Stefano Bontade (uno dei capi dei corleonesi, ndr)".
Mangano conosceva Bontade?
"Questo ritengo che risulti anche nella dichiarazione di Antonino Calderone (Borsellino poi indica un altro pentito ora morto, Stefano Calzetta, che avrebbe parlato a lungo dei rapporti tra Mangano e una delle famiglie di corso dei Mille, gli Zanca, ndr)...".
Un inquirente ci ha detto che al momento in cui Mangano lavorava a casa di Berlusconi c’è stato un sequestro, non a casa di Berlusconi però di un invitato (Luigi D’Angerio, ndr) che usciva dalla casa di Berlusconi.
"Non sono a conoscenza di questo episodio".
Mangano è più o meno un pesce pilota, non so come si dice, un’avanguardia?
"Sì, le posso dire che era uno di quei personaggi che, ecco, erano i ponti, le "teste di ponte" dell’organizzazione mafiosa nel Nord Italia. Ce n’erano parecchi ma non moltissimi, almeno tra quelli individuati. Un altro personaggio che risiedeva a Milano, era uno dei Bono (altri mafiosi coinvolti nell’inchiesta di San Valentino, ndr) credo Alfredo Bono che nonostante fosse capo della famiglia della Bolognetta, un paese vicino a Palermo, risiedeva abitualmente a Milano. Nel maxiprocesso in realtà Mangano non appare come uno degli imputati principali, non c’è dubbio comunque che... è un personaggio che suscitò parecchio interesse anche per questo suo ruolo un po’ diverso da quello attinente alla mafia militare, anche se le dichiarazioni di Calderone (nel ‘76 Calderone è ospite di Michele Greco quando arrivano Mangano e Rosario Riccobono per informare Greco di aver eliminato i responsabili di un sequestro di persona avvenuto, contro le regole della mafia, in Sicilia, ndr) lo indicano anche come uno che non disdegnava neanche questo ruolo militare all’interno dell’organizzazione mafiosa...".
Dunque Mangano era uno che poi torturava anche?
"Sì, secondo le dichiarazioni di Calderone".
Dunque quando Mangano parla di "cavalli" intendeva droga?
"Diceva "cavalli" e diceva "magliette", talvolta".
Perché se ricordo bene c’è nella San Valentino un’intercettazione tra lui e Marcello Dell’Utri, in cui si parla di cavalli (dal rapporto Criminalpol: «Mangano parla con tale dott. Dell’Utri e dopo averlo salutato cordialmente gli chiede di Tony Tarantino. L’interlocutore risponde affermativamente... il Mangano riferisce allora a Dell’Utri che ha un affare da proporgli e che ha anche "il cavallo" che fa per lui. Dell’Utri risponde che per il cavallo occorrono “piccioli” e lui non ne ha. Mangano gli dice di farseli dare dal suo amico "Silvio". Dell’Utri risponde che quello lì non "surra" [non c’entra, ndr]»).
"Sì, comunque non è la prima volta che viene utilizzata, probabilmente non si tratta della stessa intercettazione. Se mi consente di consultare (Borsellino guarda le sue carte, ndr). No, questa intercettazione è tra Mangano e uno della famiglia degli Inzerillo... Tra l’altro questa tesi dei cavalli che vogliono dire droga è una tesi che fu asseverata nella nostra ordinanza istruttoria e che poi fu accolta in dibattimento, tant’è che Mangano fu condannato".
E Dell’Utri non c’entra in questa storia?
"Dell’Utri non è stato imputato nel maxiprocesso, per quanto io ricordi. So che esistono indagini che lo riguardano e che riguardano insieme Mangano".
A Palermo?
"Sì. Credo che ci sia un’indagine che attualmente è a Palermo con il vecchio rito processuale nelle mani del giudice istruttore, ma non ne conosco i particolari".
Dell’Utri. Marcello Dell’Utri o Alberto Dell’Utri? (Marcello e Alberto sono fratelli gemelli, Alberto è stato in carcere per il fallimento della Venchi Unica, allora tutti e due erano dirigenti Fininvest, ndr).
"Non ne conosco i particolari. Potrei consultare avendo preso qualche appunto (Borsellino guarda le carte, ndr), cioè si parla di Dell’Utri Marcello e Alberto, entrambi".
I fratelli?
"Sì".
Quelli della Publitalia, insomma?
"Sì".
E tornando a Mangano, le connessioni tra Mangano e Dell’Utri?
"Si tratta di atti processuali dei quali non mi sono personalmente occupato, quindi sui quali non potrei rivelare nulla".
Sì, ma nella conversazione con Dell’Utri poteva trattarsi di cavalli?
"La conversazione inserita nel maxiprocesso, se non piglio errori, si parla di cavalli che dovevano essere mandati in un albergo (Borsellino sorride, ndr). Quindi non credo che potesse trattarsi effettivamente di cavalli. Se qualcuno mi deve recapitare due cavalli, me li recapita all’ippodromo, o comunque al maneggio. Non certamente dentro l’albergo".
In un albergo. Dove?
"Oddio i ricordi! Probabilmente si tratta del Plaza (l’albergo di Antonio Virgilio, ndr) di Milano".
Ah, oltretutto.
"Sì".
C’è una cosa che vorrei sapere. Secondo lei come si sono conosciuti Mangano e Dell’Utri?
"Non mi dovete fare queste domande su Dell’Utri perché siccome non mi sono interessato io personalmente, so appena... dal punto di vista, diciamo, della mia professione, ne so pochissimo, conseguentemente quello che so io è quello che può risultare dai giornali, non è comunque una conoscenza professionale e sul punto non ho altri ricordi".
Sono di Palermo tutti e due...
"Non è una considerazione che induce alcuna conclusione... a Palermo gli uomini d’onore sfioravano le 2000 persone, secondo quanto ci racconta Calderone, quindi il fatto che fossero di Palermo tutti e due, non è detto che si conoscessero".
C’è un socio di Dell’Utri, tale Filippo Rapisarda (i due hanno lavorato insieme; la telefonata intercettata di Dell’Utri e Mangano partiva da un’utenza di via Chiaravalle 7, a Milano, palazzo di Rapisarda, ndr) che dice che questo Dell’Utri gli è stato presentato da uno della famiglia di Stefano Bontade (i giornalisti si riferiscono a Gaetano Cinà che lo stesso Rapisarda ha ammesso di aver conosciuto con il boss dei corleonesi, Bontade, ndr).
"Beh, considerando che Mangano apparteneva alla famiglia di Pippo Calò... Palermo è la città della Sicilia dove le famiglie mafiose erano le più numerose - almeno 2000 uomini d’onore con famiglie numerosissime - la famiglia di Stefano Bontade sembra che in certi periodi ne contasse almeno 200. E si trattava comunque di famiglie appartenenti a un’unica organizzazione, cioè Cosa Nostra, i cui membri in gran parte si conoscevano tutti e quindi è presumibile che questo Rapisarda riferisca una circostanza vera... So dell’esistenza di Rapisarda ma non me ne sono poi occupato personalmente".
A Palermo c’è un giudice che se n’è occupato?
"Credo che attualmente se ne occupi..., ci sarebbe un’inchiesta aperta anche nei suoi confronti...".
A quanto pare Rapisarda e Dell’Utri erano in affari con Ciancimino, tramite un tale Alamia (Francesco Paolo Alamia, presidente dell’immobiliare Inim e della Sofim, sede di Milano, ancora in via Chiaravalle 7, ndr).
"Che Alamia fosse in affari con Ciancimino è una circostanza da me conosciuta e che credo risulti anche da qualche processo che si è già celebrato. Per quanto riguarda Dell’Utri e Rapisarda non so fornirle particolari indicazioni trattandosi, ripeto sempre, di indagini di cui non mi sono occupato personalmente".
Si è detto che Mangano ha lavorato per Berlusconi.
"Non le saprei dire in proposito. Anche se, dico, debbo far presente che come magistrato ho una certa ritrosia a dire le cose di cui non sono certo poiché ci sono addirittura... so che ci sono addirittura ancora delle indagini in corso in proposito, per le quali non conosco addirittura quali degli atti siano ormai conosciuti e ostensibili e quali debbano rimanere segreti. Questa vicenda che riguarderebbe i suoi rapporti con Berlusconi è una vicenda - che la ricordi o non la ricordi -, comunque è una vicenda che non mi appartiene. Non sono io il magistrato che se ne occupa, quindi non mi sento autorizzato a dirle nulla".
Ma c’è un’inchiesta ancora aperta?
"So che c’è un’inchiesta ancora aperta".
Su Mangano e Berlusconi? A Palermo?
"Su Mangano credo proprio di sì, o comunque ci sono delle indagini istruttorie che riguardano rapporti di polizia concernenti anche Mangano".
Concernenti cosa?
"Questa parte dovrebbe essere richiesta... quindi non so se sono cose che si possono dire in questo momento".
Come uomo, non più come giudice, come giudica la fusione che abbiamo visto operarsi tra industriali al di sopra di ogni sospetto come Berlusconi e Dell’Utri e uomini d’onore di Cosa Nostra? Cioè Cosa Nostra s’interessa all’industria, o com’è?
"A prescindere da ogni riferimento personale, perché ripeto dei riferimenti a questi nominativi che lei fa io non ho personalmente elementi da poter esprimere, ma considerando la faccenda nelle sue posizioni generali: allorché l’organizzazione mafiosa, la quale sino agli inizi degli anni Settanta aveva avuto una caratterizzazione di interessi prevalentemente agricoli o al più di sfruttamento di aree edificabili. All’inizio degli anni Settanta Cosa Nostra cominciò a diventare un’impresa anch’essa. Un’impresa nel senso che attraverso l’inserimento sempre più notevole, che a un certo punto diventò addirittura monopolistico, nel traffico di sostanze stupefacenti, Cosa Nostra cominciò a gestire una massa enorme di capitali. Una massa enorme di capitali dei quali, naturalmente, cercò lo sbocco. Cercò lo sbocco perché questi capitali in parte venivano esportati o depositati all’estero e allora così si spiega la vicinanza fra elementi di Cosa Nostra e certi finanzieri che si occupavano di questi movimenti di capitali, contestualmente Cosa Nostra cominciò a porsi il problema e ad effettuare investimenti. Naturalmente, per questa ragione, cominciò a seguire una via parallela e talvolta tangenziale all’industria operante anche nel Nord o a inserirsi in modo di poter utilizzare le capacità, quelle capacità imprenditoriali, al fine di far fruttificare questi capitali dei quali si erano trovati in possesso".
Dunque lei dice che è normale che Cosa Nostra s’interessi a Berlusconi?
"E’ normale il fatto che chi è titolare di grosse quantità di denaro cerca gli strumenti per potere questo denaro impiegare. Sia dal punto di vista del riciclaggio, sia dal punto di vista di far fruttare questo denaro. Naturalmente questa esigenza, questa necessità per la quale l’organizzazione criminale a un certo punto della sua storia si è trovata di fronte, è stata portata a una naturale ricerca degli strumenti industriali e degli strumenti commerciali per trovare uno sbocco a questi capitali e quindi non meraviglia affatto che, a un certo punto della sua storia, Cosa Nostra si è trovata in contatto con questi ambienti industriali".
E uno come Mangano può essere l’elemento di connessione tra questi mondi?
"Ma, guardi, Mangano era una persona che già in epoca ormai diciamo databile abbondantemente da due decadi, era una persona che già operava a Milano, era inserita in qualche modo in un’attività commerciale. E’ chiaro che era una delle persone, vorrei dire anche una delle poche persone di Cosa Nostra, in grado di gestire questi rapporti".
Però lui si occupava anche di traffico di droga, l’abbiamo visto anche in sequestri di persona...
"Ma tutti questi mafiosi che in quegli anni - siamo probabilmente alla fine degli anni ‘60 e agli inizi degli anni ‘70 - appaiono a Milano, e fra questi non dimentichiamo c’è pure Luciano Liggio, cercarono di procurarsi quei capitali, che poi investirono negli stupefacenti, anche con il sequestro di persona".
A questo punto Paolo Borsellino consegna dopo qualche esitazione ai giornalisti 12 fogli, le carte che ha consultato durante l’intervista: "Alcuni sono sicuramente ostensibili perché fanno parte del maxiprocesso, ormai è conosciuto, è pubblico, alcuni non lo so...". Non sono documenti processuali segreti ma la stampa dei rapporti contenuti dalla memoria del computer del pool antimafia di Palermo, in cui compaiono i nomi delle persone citate nell’intervista: Mangano, Dell’Utri, Rapisarda, Berlusconi, Alamia.
E questa inchiesta quando finirà?
"Entro ottobre di quest’anno...".
Quando è chiusa, questi atti diventano pubblici?
"Certamente...".
Perché ci servono per un’inchiesta che stiamo cominciando sui rapporti tra la grossa industria...
"Passerà del tempo prima che...", sono le ultime parole di Paolo Borsellino.
Palermo, 21 maggio, 1992.