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Addio al visionario della Mela

E' morto a 56 anni Steve Jobs, genio della Apple: il più grande innovatore dell'era digitale

06 ottobre 2011

Steve Jobs, il padre di Apple e di alcune delle più brillanti invenzioni dell'era digitale, è morto a soli 56 anni. A stroncare un uomo che sembrava imbattibile è stato il cancro al pancreas, la malattia contro cui lottava dal 2004. Negli Usa e nel mondo era conosciuto come il "guru", il "visionario", il "Leonardo Da Vinci di oggi", o meglio, il più grande innovatore dei nostri tempi. A lui si devono l'iPod, l'iTunes, l'iPhone e l'iPad, strumenti che hanno rivoluzionato un'industria intera, lasciando un'impronta indelebile nella nostra società.
La sua straordinaria vita professionale inizia nel 1976, quando in un garage fonda Apple con Steve Wozniak e Ronald Wayne. Ma poi non furono - come ammise più volte in pubblico lo stesso Jobs - "tutte rose e fiori". Nel 1985, quando Apple conosce le prime difficoltà, viene messo alla porta dalla stessa azienda che aveva creato. Fu un colpo durissimo. In quella occasione, come già era successo durante la sua non facile gioventù, Jobs non si perse d'animo: si cimentò col cinema di animazione e lo rivoluzionò lanciando Pixar, oggi un colosso nella mani della Disney. Nel 1996 Jobs ritornerà in soccorso della sua creatura, la Mela, praticamente sull'orlo del baratro dopo i colpi inferti dalla concorrente, Microsoft. Si trattava di compiere quasi un miracolo, ciò che fece Jobs lanciando la seconda fase di 'Apple', quella che conosciamo tutti perché è sinonimo di smart-phone, touch screen, IMac ma anche di un nuovo modo di ascoltare musica, leggere i giornali e navigare su Internet.

"L'effervescenza, la passione e l'energia di Steve sono state fonti di innumerevoli innovazioni che hanno arricchito e migliorato tutte le nostre vite - ha dichiarato Apple in un comunicato - Grazie a Steve il mondo è immensamente migliorato". Al mondo però Steve Jobs non lascia solo le sue "intuizioni geniali", ma lascia una vita, la sua, che in se stessa è già una lezione per tutti. Il suo vero testamento, probabilmente Steve Jobs lo consegnò già nel 2005 quando parlando ai neolaureati di Stansford lanciò il monito: "Siate folli, siate affamati", il motto della sua vita. Lui che abbandonò l’università per non fare spendere ai genitori adottivi i risparmi di tutta la loro vita, che dormì sui pavimenti del college per seguire improbabili corsi di calligrafia. Eppure, come disse allora ai ragazzi, "nella vita spesso la questione è sapere collegare i punti, mettendo a frutto le esperienze passate" e facendosi guidare dall’unica cosa che conta, la passione. E, difatti, quei corsi di calligrafia, seguiti solo per passione, si rivelarono utilissimi già nel primo Macintosh, famoso per l’accuratezza e l’estetica dei suoi caratteri oltre che per la modernità dell'interfaccia grafica. "Dovete credere in qualcosa: il vostro guru, il destino, il karma o altro. Questo approccio non mi ha mai mollato ed è questo che ha fatto la grande differenza nella mia vita".

Tutta l'America oggi è in lutto per la perdita di un dei suoi più grandi uomini. Ringraziamenti per quello che ha fatto, assieme alle condoglianze, sono arrivate dai suoi amici, Bill Gates e Mark Zuckerberg, e dai più conosciuti capitani d'aziende americani. Alle 21.30 di sera anche un lungo messaggio di cordoglio del Presidente Barack Obama: "Steve è stato tra i più grandi innovatori dell’America, coraggioso abbastanza da pensare in modo diverso, audace abbastanza da credere di poter cambiare il mondo e con il talento sufficiente per farlo". Steve, continua Obama, "è la personificazione dell’ingegno americano: facendo personal computer e mettendo internet nelle nostre tasche, ha fatto della rivoluzione dell'informazione qualcosa di accessibile, divertente ed intuitivo". Steve, ricorda ancora Obama, "era solito dire che viveva ogni giorno come fosse l'ultimo. E l'ha fatto per davvero, trasformando le nostre vite, ridefinendo l'intera industria e compiendo una delle più difficili imprese della storia umana: ha cambiato il modo in cui ognuno di noi vede il mondo". "Forse - conclude il messaggio presidenziale - il fatto stesso che il mondo ha appreso la notizia della sua morte da uno degli strumenti che lui ha inventato è il tributo più grande al successo di Steve". [Adnkronos/Aki]

Un'eredità misteriosa per il capitalismo americano
di Federico Rampini (Repubblica.it, 06 ottobre 2011)

L'impronta di Steve Jobs nella storia dell'industria americana, il suo lascito all'economia dei nostri tempi, è formidabile ed è indefinibile. Non esiste una "teoria di Steve Jobs", una ricetta. Passerà del tempo prima che sia chiaro se Apple può ripetere gli stessi exploit, prolungare quella corsa forsennata, anche senza di lui: ma non è questo il punto. L'eredità che Jobs ci lascia è misteriosa perché è difficile dire che cosa sia stata Apple sotto la sua guida ispiratrice. Un'impresa informatica? Solo all'origine, con la gamma dei Macintosh e poi degli iMac. Ma venne l'iPod con annesso l'ipermercato virtuale iTunes: così Apple invase e cambiò il business musicale. Poi l'iPhone: è allora una società telefonica? E l'iPad: Jobs come reinventore del mondo dell'informazione e dell'editoria? E gli Apple Store: un gigante della distribuzione? E' stato un po' di tutto, il che spiega il fantastico sorpasso di Borsa sulla Microsoft, il balzo verso il primato mondiale assoluto tra le imprese tecnologiche.

Questo è tanto più sorprendente per un'azienda che fu moribonda, stava letteralmente scomparendo quando Jobs vi fece il suo ritorno dopo un lungo divorzio. A decifrare la vera natura di Jobs forse aiuta la definizione che ne diede John Sculley, sfortunato chief executive dal 1983 al 1993: "La gente parla di tecnologia, ma la verità è che Apple è stata un'azienda di marketing. L'azienda di marketing del decennio". Fuochino fuochino, ma anche questo non basta. Il mondo intero si era talmente abituato ai trionfi di Jobs, che le sue innovazioni ci sembravano perfino scontate. La sua filosofia è stata rivoluzionaria in molti campi, fino a fare scuola: e quindi oggi detta legge e sembra quasi scontato che sia così. Un esempio è il design. Vent'anni fa chi si sognava che un computer dovesse essere "bello"? Ci accontentavamo di scatoloni disegnati col righello, purché funzionassero.
Dopo Steve Jobs, la fusione tra estetica e tecnologia è un obbligo per sopravvivere in quel settore. Il che non significa che i suoi computer fossero solo degli oggetti del desiderio. In fatto di tecnologia, i loro interfaccia grafici conquistarono fin da principio nicchie di utenti sofisticati e in grado d'influenzare altri (grafici, pubblicitari, giornalisti, case editrici). Ecco un'altra costante di Apple: la capacità di sfornare status-symbol, adottati da chi poi detta le mode. Il caso dell'iPod fu forse il più clamoroso esempio di reinvenzione di un prodotto già esistente: gli mp3 per ascoltare musica. Jobs ci aggiunse, oltre al design dell'iPod ben più seducente di ogni altro predecessore, anche la novità di iTunes, magazzino virtuale di tutta la musica umana. E convinse generazioni di "pirati", abituati a copiare gratis i brani musciali, a soggiacere al micro-pagamento di 99 centesimi. Da allora, sembra quasi che la musica digitale l'abbia inventata Apple, perché l'epoca pre-iPod sembra preistoria. Un mistero della fede è anche il modo in cui Steve Jobs gestiva la comunicazione: contravvenendo a tutte le regole.

La sua era per il 99% del tempo non-comunicazione, anti-comunicazione: poche aziende hanno trattato così male i giornalisti come Apple, e nessuna ha ricevuto in cambio così tanta pubblicità gratuita. L'alone di leggendaria segretezza che Jobs imponeva a tutti i suoi collaboratori, la caccia spietata contro i responsabili delle fughe di notizie, costruivano attorno al quartier generale di Cupertino un clima mitico d'impenetrabilità. Ma anziché provocare ostilità o indifferenza, questa strategia alimentava attese parossistiche prima del lancio dei nuovi prodotti. Poi appariva Jobs, il Profeta, osannato dai seguaci come fossero appartenenti a una setta religiosa. Per descrivere l'atteggiamento dei consumatori verso Apple è stato usato spesso il termine "devozione", che noi associamo alla Chiesa. Poche marche nella storia dell'industria moderna hanno saputo conquistarsi un simile patrimonio di fedeltà. Forse la Ferrari o il Rolex ma di certo nessun produttore di beni di massa, venduti a decine o centinaia di milioni di esemplari nel mondo.
Nel sondaggio annuo della rivista Fortune, Apple è risultata come l'azienda più ammirata del mondo per tre anni consecutivi, nel 2008, 2009 e 2010. La "filosofia" che Jobs ha portato alle estreme conseguenze per altri aspetti è figlia della Silicon Valley, è una costante di alcune generazioni di imprenditori innovativi radicati nella West Coast degli Stati Uniti: l'organizzazione aziendale "piatta", cioè poco gerarchica, la flessibilità, lo stile ostentatamente ludico e giovanilista dei "campus", il premio ai geni creativi trasgressivi e ribelli, tutto questo fu vero per una fase iniziale alla Microsoft, così come lo è stato per Google e Facebook.
Apple ha inventato l'etichettatura "designed in California", restituendo all'America la speranza che la globalizzazione e le delocalizzazioni manifatturiere non impediscano di conservare il ruolo più pregiato: essere il luogo di "concezione, progettazione", la fabbrica delle idee. Jobs diede della cultura californiana un'interpretazione particolare, applicandola con uno stile personale furiosamente autoritario, la determinazione di "spremere" i suoi talenti migliori umiliandoli e mettendoli in competizione fra loro. Praticò un rigore maniacale nello scartare nove progetti prima di approvarne uno, e a quel punto concentrava tutta l'attenzione su quel prodotto nuovo, la sua qualità, la soddisfazione del cliente.
Perché è impossibile prevedere oggi se le sue ricette siano ripetibili? Perché alla fine la magìa si accendeva nel momento in cui Jobs saliva sul palco, e l'affabulatore ipnotizzava le masse. Quella non era economia industriale, era arte.

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06 ottobre 2011
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