Agli italiani la Sanità pubblica piace sempre meno
Dal rapporto Eurispes "L'Italia: una terapia della scelta" si evince che solo il 36% degli italiani è soddisfatto dal Ssn
Il Servizio sanitario nazionale, fiore all'occhiello dell'Italia all'estero, agli abitanti del Belpaese piace sempre meno. A sconfortare i connazionali tempi di attesa troppo lunghi (79,4%), scarsa qualità delle strutture ospedaliere (66,1%), ticket salati (60,3%) e assistenza nei nosocomi che lascia a desiderare (56%). Una lancia viene spezzata soltanto quando a essere chiamata in causa è la professionalità degli addetti ai lavori - medici e infermieri - che fanno registrare rispettivamente un indice di gradimento che si attesta a quota 64,2% per i primi e 60,2% per i secondi.
A scattare la fotografia, con parecchie ombre e poche luci per il nostro Ssn, è il Rapporto Italia 2011 messo a punto dall'Eurispes e presentato nei giorni scorsi a Roma.
ll livello di soddisfazione che gli italiani esprimono nei confronti dei servizi offerti dal nostro Sistema sanitario, rivela il Rapporto "L'Italia: una terapia della scelta", risulta scarso, considerando che a rispondere di essere poco soddisfatto è il 44,3% del campione e che il 17,1% dichiara di non esserlo affatto (il parere negativo si attesta dunque complessivamente al 61,4%). Il grado di soddisfazione si ferma appena al 35,8% (31,9% abbastanza e 3,9% molto soddisfatto).
Rispetto all'anno appena trascorso, il livello di insoddisfazione dei cittadini è cresciuto. Si dice infatti per nulla e poco soddisfatto il 4,3% e lo 0,8% in più di persone (che fa registrare un +5,1% in un anno tra le fila degli scontenti), mentre al contrario si assottiglia la percentuale di quanti si dicono abbastanza e molto soddisfatti, comportando un -5,3% nel primo caso e un -0,6% nel secondo, che fa diminuire il livello di soddisfazione del 5,9% rispetto allo scorso anno.
Maggiore soddisfazione per il nostro sistema sanitario si registra nel Centro (41,3%), seguito da Nord-Ovest (39,1%), Nord-Est (38,6%), Isole (26,4%) e Sud (26,3%). Esprimono malcontento il 71,2% degli abitanti delle Isole, il 70,7% del Meridione, il 58,5% del Nord-Est, il 58,2% del Nord-Ovest e il 55,6% del Centro.
Peggiora, in particolare, il giudizio degli italiani sull'assistenza ospedaliera. Si reputa poco e affatto soddisfatto il 40,9% e il 15,1% dei cittadini (per un totale del 56%), contro il 37,2% e il 4,8% di chi si dice abbastanza e molto soddisfatto (per un totale del 42%). Il confronto con l'anno 2010 mostra un aumento del grado di insoddisfazione dell'8,1% e una diminuzione dei soddisfatti del 6,6% circa.
A creare malcontento tempi di attesa "intollerabili". Coloro che, su questo particolare tema, si ritengono abbastanza soddisfatti dei tempi necessari a risolvere i loro bisogni ospedalieri sono il 12,5% dei connazionali, cui si aggiunge un 5,4% che dichiara di essere estremamente soddisfatto, per un totale di pareri positivi che si attesta a quota 17,9%. A lamentare una totale insoddisfazione è invece il 44,9% degli intervistati, seguiti da un 34,5% che si dichiara poco soddisfatto, facendo registrare un totale che sfiora i quattro quinti degli italiani (79,4%). Considerando che la situazione disegnata nel 2010 esprimeva già delle condizioni pessime (il 74,5% si era detto insoddisfatto, contro il 21,3% che svelava il contrario), il peggioramento registrato fa segnare un +4,9% tra coloro che criticano l'eccessiva lunghezza dei tempi di attesa all'interno degli ospedali presenti sul territorio e un -3,4% tra quanti invece non esprimono lamentele al riguardo.
Altra nota dolente le strutture ospedaliere, carenti per due terzi dei cittadini. La qualità dei nosocomi distribuiti sulla Penisola risulta insufficiente per i due terzi del campione: non si ritiene infatti soddisfatto il 66,1% (45,3% poco, 20,8% per niente), contro il 31,8% che esprime gradimento (29,6% abbastanza, 2,2% molto). Rispetto al 2010, il sentimento di apprezzamento sui requisiti che un ospedale dovrebbe avere passa dal 39,2% al 31,8% (-7,4%), quello di insoddisfazione cresce dell'8,5% (dal 57,6% del 2010 al 66,1%).
Nonostante la carenza di strutture e servizi, è largamente apprezzata la competenza di medici e infermieri, primo dato positivo. Sono infatti il 64,2% i cittadini che si dichiarano abbastanza (52,1%) e molto (12,1%) soddisfatti della preparazione dei camici bianchi, valore che tuttavia si attestava nel 2010 al 71,6%, facendo registrare un calo del 7,4%. I critici sono invece il 33% che, se messi a paragone con lo scorso anno (24,8%), mostrano come il dato sia cresciuto.
Un altro dato positivo riguarda la valutazione relativa alla professionalità del personale infermieristico: il 60,2% esprime infatti gradimento verso la categoria e il suo operato, contro il 37,5% di quanti si dicono insoddisfatti. Rispetto all'anno passato la situazione è stabile: è diminuito il gradimento soltanto dello 0,2% ed è aumentato il malcontento dell'1,3%.
In linea con i risultati ottenuti sulla rilevazione del 2010, interrogati sulla responsabilità dei casi di malasanità avvenuti all'interno di alcuni ospedali pubblici italiani, il 18,4% dei connazionali ne fa risalire la causa alle carenze strutturali degli ospedali pubblici, quali il mancato rispetto delle norme igieniche e il sovraffollamento; il 14,5% sostiene che il problema principale sia costituito dai medici, il 12,5% imputa la responsabilità ai tagli alla sanità, il 3,9% ritiene che i colpevoli siano gli infermieri, mentre la maggior parte, il 47%, sostiene che a dar vita ai casi di malasanità sia l'insieme congiunto dei fattori citati.
E se da un lato la sanità pubblica perde colpi, cresce dall'altro il gradimento per i privati. Per usufruire di cure specialistiche o affrontare interventi chirurgici, gli italiani preferiscono affidarsi, nel 41,4% dei casi, alle strutture ospedaliere pubbliche, mentre si attestano su livelli simili coloro che preferiscono rivolgersi agli ospedali privati (26,1%) e quanti invece, pur volendo optare per i privati che rappresentano la loro prima scelta, sono costretti a ripiegare sul servizio pubblico a causa dei costi troppo elevati (24,2%). Questa categoria è aumentata del 3,8% rispetto all'anno precedente, così come chi predilige le cure e i servizi erogati dalle cliniche private ha fatto registrare un aumento del 3,3%. In drastico calo rispetto al 2010 invece (-10,1%) le preferenze accordate alle strutture sanitarie pubbliche.
In Italia oltre 20 morti al giorno per infezioni in corsia - Nelle corsie degli ospedali italiani circola un'insidiosa malattia che colpisce ogni anno circa 400 mila pazienti, praticamente quanto l'intera popolazione di una città come Firenze: è l'infezione ospedaliera. Nessuna struttura ne è immune, né pubblica né privata, del Nord come del Sud. Polmoniti, setticemie e infezioni da catetere le più diffuse. A farne le spese sono soprattutto i pazienti più deboli, gli immunodepressi, i malati cronici, che durante il ricovero possono essere colpiti da batteri particolarmente aggressivi e resistenti che, in alcuni casi, possono anche essere letali. Si calcola infatti che il 2% dei pazienti che contraggono un'infezione in corsia muore, circa 8 mila l'anno. Praticamente, in media, oltre 20 al giorno.
A fornire i numeri all'Adnkronos Salute è Antonio Cassone, docente universitario di Microbiologia e consulente dell'Istituto superiore di sanità (Iss), che, grazie a una ricerca condotta l'anno scorso in 50 ospedali della penisola, può tracciare un quadro aggiornato sul tema delle infezioni ospedaliere, quest'anno in lieve calo grazie a un'applicazione più forte delle norme di prevenzione e al lavoro dei team di controllo attivati nei grandi ospedali italiani. "E' bene precisare subito che queste stime - sottolinea l'esperto - possono presentare un certo margine di errore. Ma da quanto emerso possiamo rilevare nell'ultimo periodo un lieve trend al ribasso del fenomeno. Per avere dati certi sarebbe però necessario analizzare i singoli ospedali e i singoli reparti".
Comunque, in base alle ultime ricerche, il numero delle infezioni in corsia sembra rallentare il passo. Il precedente rapporto dell'Iss indicava infatti in 500 mila il numero dei casi di infezioni ospedaliere l'anno. Ma il pericolo rimane sempre alto. "Altissimo", precisa Cassone. "Anche se - sottolinea - in linea con quanto si registra negli Stati Uniti e negli altri Paesi europei". I circa 400 mila casi di infezioni sono infatti da rapportare agli oltre 9 milioni di ricoverati l'anno. Vale a dire una percentuale di circa il 5%, che in alcuni reparti può però salire di molto. "Nei reparti di chirurgia o in quelli di terapia intensiva la percentuale di infezioni sistemiche di tipo settico può salire fino all'11-12%. E - sottolinea Cassone - non è un caso. E' proprio in queste unità che si trovano i pazienti più deboli, con le difese immunitarie più basse".
Nonostante il buon lavoro degli organismi di controllo si potrebbe quindi fare molto di più. Il fenomeno delle infezioni ospedaliere, se non eliminare del tutto, si potrebbe ridurre. "Almeno il 30% di queste infezioni sono potenzialmente prevenibili", spiega Cassone. "Per combatterle servono però misure preventive, una su tutte: il rispetto delle misure di igiene del personale medico e infermieristico, ad esempio il lavaggio accurato delle mani". E ancora: "La pulizia degli ambienti, la manutenzione degli impianti di aerazione e delle condutture dell'acqua. Ma anche - aggiunge Cassone - il rispetto di alcune regole fondamentali, come quella di non uscire dal reparto con il camice, oppure limitare il numero dei visitatori o del personale di altri reparti".
Dello stesso avviso anche Carlo Signorelli, della Siti (Società italiana di igiene, medicina preventiva e sanità pubblica), secondo il quale "è necessaria una sorveglianza sistematica del fenomeno in ciascun ospedale attraverso l'istituzione di comitati 'ad hoc'. E ancora. Impianti adeguati e soprattutto corrette procedure igieniche da parte degli operatori, tra cui l'igiene personale e il lavaggio delle mani. Importante anche la collaborazione dei pazienti e dei loro parenti che possono portare in ospedale germi e aumentare il rischio di infezione".
Un'altra misura da osservare per combattere il fenomeno è senz'altro quella relativa all'uso appropriato degli antibiotici. "Il ricorso esagerato a questo tipo di farmaci - spiega Cassone - crea infatti il cosiddetto fenomeno dell'antibioticoresistenza. I batteri presenti nell'ambiente col tempo diventano resistenti agli antibiotici, favorendo l'entrata in circolo di queste infezioni. Quindi, antibiotici sì, ma mirati". Tesi sottoscritta anche da Vilma Rigobello, presidente della Società italiana multidisciplinare per la prevenzione delle infezioni nelle organizzazioni sanitarie (Simpios). "L'uso eccessivo e inappropriato degli antibiotici - spiega - insieme alla straordinaria versatilità genetica dei microrganismi, sta mettendo a rischio la loro efficacia nel controllo delle infezioni e non solo in Italia".
Che le infezioni rappresentino un grosso pericolo lo dimostrano anche le cronache recenti. Casi emersi e già finiti sotto l'occhio attento della Commissione parlamentare d'inchiesta sugli errori e disavanzi sanitari, presieduta da Leoluca Orlando. Due episodi più recenti riguardano l'Aurelia Hospital di Roma, struttura privata convenzionata, dove "in soli nove mesi (da gennaio 2009 a settembre 2009) sono stati registrati 80 casi di infezione ospedaliera provocata dall'Acinetobacter baumannii", microrganismo infettivo molto pericoloso. "Infezioni che - secondo i documenti raccolti dalla Commissione - avrebbero provocato la morte di 26 pazienti".
All'esame della Commissione di Orlando è anche il caso delle sospette infezioni da Aspergillo (una muffa che può causare problemi a carico soprattutto dell'apparato respiratorio), su cinque neonati all'ospedale Gaslini di Genova. Infezioni che, fanno sapere dalla Commissione, "sarebbero avvenute alla fine della scorsa estate (ma resi noti a gennaio 2011) nel reparto di patologia intensiva neonatale del nosocomio. Anche se Gianni Serra, direttore della divisione di patologia e terapia intensiva neonatale, smentisce si sia trattato di Aspergillo e fa sapere che al Gaslini l'incidenza di questa infezione è del 10% contro la media nazionale del 25%", si legge sempre sui documenti.
All'attenzione della Commissione c'è pure un decesso di una paziente, in seguito a due arresti cardiaci che potrebbero essere ricondotti a infezione da Acinetobacter, avvenuto lo scorso 17 maggio nell'Unità di terapia intensiva del reparto di neurochirurgia del Policlinico Umberto I di Roma, struttura che - come emerge dalle carte della Commissione - fu protagonista, al termine degli anni '90, di ripetuti scandali legati a drammatici casi di infezione. Nel 1998 quattro anziani operati di cataratta nella clinica oculistica dell'Umberto I persero la vista ad un occhio per una infezione in sala operatoria dovuta al virus della Legionella. Solo un anno dopo, nel '99, quindici neonati vennero infettati e tredici finirono in terapia intensiva per una epidemia anomala di enterite. Nuova drammatica emergenza nel 2001: due madri costrette a non allattare i neonati; alcuni cesarei rinviati.
Sul tavolo di Orlando anche il caso di una presunta infezione da Staffilococco ai danni di tre persone (una donna di 78 anni e due uomini di 51 e di 83) morti nella clinica Hesperia di Modena (centro cardiochirurgico privato accreditato modenese) nel maggio 2010. Erano stati operati nello stesso giorno e nello stesso blocco operatorio, uno di seguito all'altro. Ciò ha fatto ipotizzare l'esistenza di una fonte comune di infezione. C'è poi il decesso di un uomo con una rara malattia immunologica: "Aveva contratto - spiegano dalla Commissione parlamentare - il virus H1N1 all'ospedale di Siracusa, infezione che lo ha portato al decesso. Secondo l'esposto ci sarebbero stati vari errori, primo fra tutti quello di averlo ricoverato in un reparto di malattie infettive, pieno di malati colpiti da influenza A".
Tante le segnalazioni che giungono anche al Tribunale per i diritti del malato (Tdm). C'è il caso del paziente ricoverato per una polmonite che viene colpito dallo Pseudomonas, batterio molto virulento. "Quando è morto - fanno sapere dal Tdm - i medici non hanno ritenuto opportuno effettuare l'esame autoptico perché le cause erano evidenti: infezione ospedaliera".
E ancora. "C'è la mamma - racconta il Tdm - che ci riferisce di suo figlio che, ricoverato a seguito di un incidente stradale, ha contratto l'osteomielite", un'infezione dell'apparato osteo-articolare. "Ha riportato danni fisici irreversibili e psichici". C'è poi il caso del ragazzo "ricoverato per una frattura a una gamba che, a causa di una placca esterna infettata, è morto a soli 37 anni. Dalle analisi infettivologiche e si è appurato che era affetto da Stafilococco aureus".
Le infezioni non costano solo tante sofferenze ai pazienti che le contraggono. Oltre a essere un'insidia per la salute, sono infatti anche un costo salatissimo per il Servizio sanitario nazionale. "L'impatto economico sul sistema sanitario - spiega la presidente Simpios, Rigobello - è superiore a 1 miliardo di euro all'anno e l'onere maggiore è rappresentato dal prolungamento della degenza: il 7,5-10 % delle giornate di ricovero è infatti imputabile all'insorgenza di una complicanza infettiva".
La comunità scientifica internazionale e Istituzioni quali l'Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e l'European Centre for Disease Prevention and Control (Ecdc) sono concordi nel sostenere la necessità di contrastare questo fenomeno con programmi di formazione, di prevenzione, di sorveglianza epidemiologica e di controllo. "Addirittura in molti Paesi - sottolinea Rigobello - la frequenza delle infezioni ospedaliere è uno degli indicatori della qualità assistenziale".
Il Centro nazionale per la prevenzione e il controllo delle malattie (Ccm), organismo di coordinamento tra il ministero della Salute e le Regioni per le attività di sorveglianza, prevenzione e risposta tempestiva alle emergenze, ha promosso una serie di progetti in tema di prevenzione e sorveglianza delle infezioni ospedaliere. Iniziative che sembrerebbero far emergere notevoli differenze tra Regioni nelle modalità di attuazione dei programmi. "Gli ospedali più attivi - spiega Rigobello - sono prevalentemente collocati in regioni che hanno definito programmi di intervento, quali Piemonte, Emilia Romagna, Lombardia, Toscana, Friuli. In queste regioni - aggiunge - sono presenti programmi e/o strategie: i modelli organizzativi possono essere diversi, ad esempio il Piemonte ha individuato appositi indicatori organizzativi, di controllo e sorveglianza che, se non adottati o non raggiunti annualmente, penalizzano economicamente la direzione generale dell'ospedale. Questo sistema 'premiante' ha consentito di avere negli anni una rete organizzativa efficace, che lavora costantemente a tempo pieno sul problema".
Un altro esempio è la realizzazione della campagna "Clean Care is Safer Care", promossa dall'Oms a livello mondiale nel 2005. La campagna aveva l'obiettivo di promuovere l'igiene delle mani degli operatori sanitari in quanto misura universalmente riconosciuta e fortemente raccomandata nella prevenzione delle infezioni ospedaliere. In Italia la partecipazione è stata molto ampia: 15 Regioni o Province autonome, 127 aziende sanitarie, 175 ospedali, 285 unità operative, per un totale di più di 9 mila operatori coinvolti.
"Questi esempi - sottolinea Rigobello - dimostrano chiaramente che a supporto dell'organizzazione di un ospedale è basilare la presenza e la presa in carico del problema delle Istituzioni, in caso contrario, il fenomeno delle infezioni ospedaliere è destinato a non migliorare. Ultima riflessione ma non certo di minore importanza, riguarda il coinvolgimento del cittadino alla propria cura e salute. Anche in questo caso - conclude l'esperta - esperienze svolte soprattutto all'estero, dimostrano che una buona politica di prevenzione delle infezioni richiede in primis l'impegno dei professionisti della salute e la corretta informazione e partecipazione della persona ricoverata".
[Informazioni tratte da Adnkronos/Ing, Adnkronos Salute]