Al "Caro estortore..."
Vent'anni fa la strada verso la legalità tracciata dal coraggio e dalla dignità di Libero Grassi
Al Caro estortore...
"...volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l'acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere... Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al 'Geometra Anzalone' e diremo no a tutti quelli come lui".
Libero Grassi, Giornale di Sicilia del 10-01-1991
"Venti anni fa la 'lettera al caro estortore' fu pubblicata sul Giornale di Sicilia e successivamente sul Corriere della Sera. E' stato il primo atto pubblico di denuncia delle estorsioni. La prima pubblica rottura dell'omertà tra cittadini che coinvolgeva sia le vittime che gli artefici del prepotere mafioso. Un cittadino imprenditore, Libero Grassi, sottoposto a pressanti richieste di 'pizzo', non solo si rifiutò di pagare ma denunciò pubblicamente quella modalità che i suoi concittadini subivano quasi fosse una tassa dovuta". Questo è quello che ha scritto sabato scorso Pina Maisano Grassi, vedova dell'imprenditore Libero Grassi, ucciso nell'agosto del '91 per essersi opposto al pizzo, in una lettera al sito postaweb@gds.it.
"I colleghi di Libero e le istituzioni si guardarono bene dal supportare la sua iniziativa e... se ne lavarono le mani - continua nella lettera la vedova Grassi - L'assurdo di tale comportamento è stato messo in evidenza in una trasmissione di grande "audience" - Samarcanda - condotta da Michele Santoro a cui fu invitato Libero Grassi. Ma se Libero era l'unico imprenditore a ribellarsi al pizzo lo si doveva eliminare perché dava il 'cattivo esempio'. Ed infatti il 29 agosto del '91 fu ucciso tra l'ipocrita rimpianto dei politici di turno e con la sincera, dolorosa partecipazione delle maestranze di fabbrica".
"Tredici anni dopo (luglio 2004) le strade commerciali di Palermo si svegliano tappezzate da piccoli adesivi che dicono 'Un intero popolo che paga il pizzo e' un popolo senza dignità'. Chi sono? - scrive ancora Pina Maisono Grassi -. Se fossero dei giovani potrebbero essere miei nipoti perché la pensano esattamente come me". Sono dei giovani: sono i ragazzi di Addiopizzo. Sono la realtà che contrasta Cosa Nostra senza retoriche, senza pretendere finanziamenti pubblici, convinti che le loro azioni costruiscono un futuro vivibile, un futuro etico a favore della società che studia, lavora, produce reddito, che finalmente è riconosciuta dallo Stato che ci piace. I magistrati, le forze dell'ordine - polizia, carabinieri, guardia di finanza - sono i nostri amici, sono lo Stato con cui vogliamo convivere per non essere i 'paria' della società".
Pina Maisano Grassi conclude: "In un paese oggi 'inesistente' nella considerazione internazionale, i ragazzi di Addiopizzo lasciano una traccia percorribile, un piccolo sentiero luminoso che può portarli a vivere in un futuro accettabile".
La lettera di Libero Grassi pubblicata dal "Corriere della Sera" il 30/8/1991, il giorno successivo alla sua uccisione.
La "Sigma" è un'azienda sana, a conduzione familiare. Da anni produciamo biancheria da uomo: pigiami, boxer, slip e vestaglie di target medio-alto che esportiamo in tutta Europa. Abbiamo 100 addetti: 90 donne e 10 uomini. Il nostro giro d'affari è pari a 7 miliardi annui. Evidentemente è stato proprio l'ottimo stato di salute dell'impresa ad attirare la loro attenzione.
La prima volta mi chiesero i soldi per i "poveri amici carcerati", i "picciotti chiusi all'Ucciardone". Quello fu il primissimo contatto. Dissi subito di no. Mi rifiutai di pagare. Così iniziarono le telefonate minatorie: "Attento al magazzino", "guardati tuo figlio", "attento a te". Il mio interlocutore si presentava come il geometra Anzalone, voleva parlare con me. Gli risposi di non disturbarsi a telefonare. Minacciava di incendiare il laboratorio. Non avendo intenzione di pagare una tangente alla mafia, decisi di denunciarli.
Il 10 gennaio 1991 scrissi una lettera al "Giornale di Sicilia" che iniziava così: "Caro estortore...". La mattina successiva qui in fabbrica c'erano dei carabinieri, dieci televisioni e un mucchio di giornalisti. A polizia e carabinieri consegnai 4 chiavi dell'azienda chiedendo loro protezione.
Mentre la fabbrica era sorvegliata dalla polizia entrarono due tipi strani. Dissero di essere "ispettori di sanità". Fuori però c'era l'auto della polizia e avevano grande premura. Volevano parlare a tutti i costi con il titolare. Scesi e dissi loro che il titolare riceve solo per appuntamento e al momento era impegnato in una riunione. Se ne andarono. Li descrissi alla polizia e loro si accorsero che altri imprenditori avevano fornito le medesime descrizioni. Gli esattori del "pizzo", i due che indifferentemente si facevano chiamare geometra Anzalone, altri non erano che i fratelli gemelli Antonio e Gaetano Avitabile, 26 anni. Furono arrestati il 19 marzo insieme ad un complice.
Una bella soddisfazione per me, ma anche qualche delusione; il presidente provinciale dell'Associazione industriali, Salvatore Cozzo, dichiarò che avevo fatto troppo chiasso. Una "tamurriata" come si dice qui. E questo, detto dal rappresentante della Confindustria palermitana, mi ha ferito. Infatti dovrebbero essere proprio le associazioni a proteggere gli imprenditori. Come? È facile. Si potrebbero fare delle assicurazioni collettive. Così, anche se la mafia minaccia di dar fuoco al magazzino si può rispondere picche. Ma anche a queste mie proposte il direttore dell'Associazione industriali di Palermo, dottor Viola, ha detto no, sostenendo che costerebbe troppo. Non credo però si tratti di un problema finanziario, è necessaria una volontà politica.
L'unico sostegno alla mia azione, a parte le forze di polizia, è venuta dalla Confesercenti palermitana. Devo dire di aver molto apprezzato l'iniziativa SoS Commercio che va nella stessa direzione della mia denuncia. Spero solo che la mia denuncia abbia dimostrato ad altri imprenditori siciliani che ci si può ribellare.
Non ho mai avuto paura ed ora mi sento garantito da ciò che ho fatto. La decisione scandalosa del giudice istruttore di Catania, Luigi Russo (del 4 aprile 1991) che ha stabilito con una sentenza che non è reato pagare la "protezione" ai boss mafiosi, è sconvolgente. In questo modo infatti è stato legittimato con il verdetto dello Stato il pagamento delle tangenti. Così come la resa delle istituzioni e le collusioni. Proprio ora che qualcosa si stava muovendo per il verso giusto.
Stabilire che in Sicilia non è reato pagare la mafia è ancora più scandaloso delle scarcerazioni dei boss. Ormai nessuno è più colpevole di niente. Anzi, la sentenza del giudice Russo suggerisce agli imprenditori un vero e proprio modello di comportamento; e cioè, pagate i mafiosi. E quelli che come me hanno invece cercato di ribellarsi?
Ora più che mai le Associazioni imprenditoriali che non si impegnano sinceramente su questo fronte vanno messe con le spalle al muro. La risposta infatti deve essere collettiva per spersonalizzare al massimo la vicenda.