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Al processo per la strage di via D'Amelio

Ieri a Caltanissetta sono stati sentiti Liliana Ferraro, Antonio Ingroia e l'ex collaboratore Scarantino

02 aprile 2014

Ieri, a Caltanissetta, davanti alla Corte d'assise, è cominciata la deposizione dell'ex vicedirettore degli Affari Penali del ministero della Giustizia, Liliana Ferraro, al processo per la strage di via D'Amelio costata la vita al giudice Paolo Borsellino e agli agenti della sua scorta.
La Ferraro ha ripercorso la sua carriera e in particolare la sua esperienza in via Arenula col giudice Giovanni Falcone.
"All'inizio degli anni Ottanta, negli uffici giudiziari di Palermo la situazione era insostenibile. Falcone aveva una stanza con due sedie senza zampe che venivano sostenute da faldoni - ha raccontato - Conobbi poi Borsellino a Palermo, a presentarmelo fu Falcone. Parlammo di sicurezza dei magistrati e funzionalità dell'ufficio. Per farmi capire in che condizioni lavoravano - ha aggiunto - mi portarono in una stanza piena di fascicoli. Arrivavano fino al soffitto, per prenderli bisognava salire sulle sedie. Quello era l'archivio di Falcone".

La Ferraro ha parlato anche del tentativo di agganciare Vito Ciancimino. "Il capitano Giuseppe De Donno, dopo la morte di Giovanni Falcone, prese contatti con Massimo Ciancimino, figlio di Vito, affinché convincesse il padre a collaborare con la giustizia. L'obiettivo era fermare questo stragismo, bisognava trovare gli assassini del giudice. Noi vogliamo fare il possibile, disse. Dopo la morte di Falcone - ha aggiunto la Ferraro - De Donno mi venne a trovare al ministero. Era disperato per la morte di Falcone, perché aveva perso un amico, per lui Falcone era un magistrato di riferimento. I due erano molto in confidenza, si davano del tu. Mi chiese se non era il caso di avvertire il ministro Martelli per fargli sapere che i Ros erano molto impegnati per far luce su quanto stava accadendo. Gli dissi che ritenevo opportuno che loro ne parlassero con l'autorità giudiziaria competente".

A Palermo proprio in quel periodo era tornato Paolo Borsellino dopo gli anni alla guida della Procura di Marsala. "Io stessa - ha ricordato Ferraro - lo contattai e ci incontrammo a Fiumicino, alla fine di giugno del '92. Borsellino mi disse: va bene, ho capito. Ci penso io. Parlammo di un rapporto, denominato "Mafia e appalti" che era stato consegnato alla Procura di Palermo. Un rapporto in cui si era concentrato molto anche Giovanni Falcone. Un rapporto che venne consegnato anche a me, ma mi limitai solo a sfogliarlo perché ricevetti una telefonata da Falcone il quale mi pregò di chiuderlo e mi invitò a scrivere due lettere. Poi mi disse: questi qui (Falcone si riferiva alla Procura di Palermo) cosa vogliono ottenere? Le lettere erano destinate alla Procura di Palermo e al Csm perché non era chiaro per quale motivo il fascicolo fosse stato consegnato al ministero".
La teste ha anche parlato della telefonata che Falcone gli fece quando venne ucciso Salvo Lima. "Quando venne ucciso Lima, Giovanni - ha detto Liliana Ferraro - mi telefonò di notte e mi disse: e adesso può succedere qualsiasi cosa, potremmo avere di tutto. Mi sembrò molto teso, scosso".

Dopo l’audizione di Liliana Ferraro, è stato ascoltato l'ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, oggi fuori dalla magistratura, che ha esordito dicendo: "Non ho mai sentito il giudice Paolo Borsellino parlare di trattativa".
Con la sua testimonianza, Ingroia ha ricostruito il terribile 1992 palermitano, l'anno delle stragi, degli omicidi eccellenti e dei veleni in Procura.
"Dobbiamo calarci in quel momento, subito dopo la morte di Giovanni Falcone - ha detto Ingroia - Dopo la strage di Capaci, Borsellino era a un livello di intransigenza massima. Tanto è vero che una volta si espresse, in una riunione ristretta, che venissero adottate misure eccezionali, se non addirittura introduzione di pene capitali. Se qualcuno avesse accennato a un ammorbidimento della legislazione antimafia sarebbe saltato in aria".

Ingroia, che lavorò con Borsellino alla procura di Marsala, ha parlato anche del periodo palermitano del magistrato ucciso e dei contrasti con l'allora procuratore Giammanco. "Quando Borsellino iniziò a lavorare alla Procura di Palermo, il suo primo interesse fu quello di occuparsi dell'omicidio di Salvo Lima perché veniva considerato come un fatto enorme, nuovo, imprevisto. Falcone quel delitto lo considerò come un fatto dirompente, l'inizio di una catena di fatti omicidiari all'interno di Cosa nostra. Però, l'allora procuratore capo di Palermo, Pietro Giammanco, era contrario alla candidatura avanzata da Borsellino che si era reso per l'appunto disponibile a seguire le indagini per l'uccisione di Lima. Questi era considerato - ha continuato l'ex magistrato - uno snodo delle relazioni fra mafia e politica e la sua morte significava che si era rotto qualcosa e che potesse partire una strategia dai contorni ancora poco noti. Questo me lo disse Borsellino ma era una considerazione di Falcone".
Erano anche gli anni in cui Gaspare Mutolo aveva manifestato la sua intenzione di collaborare con la giustizia. "Il primo a sentirlo - ha detto Ingroia - fu il procuratore Vigna. Mutolo riferì subito a Vigna che voleva essere sentito da Borsellino ma Giammanco non ne fece parola con Borsellino il quale s'arrabbiò con il capo della Procura che aveva provveduto ad assegnare il fascicolo ad Aliquò. Solo successivamente, Borsellino chiese ed ottenne di seguire Mutolo ma insieme al suo collega della Procura palermitana. Per la strage di Capaci invece, Borsellino aveva sempre detto che si sarebbe seduto davanti ai magistrati di Caltanissetta solo nel momento in cui avesse avuto delle certezze. Fino a quel momento non l'avrebbe fatto".

"Nell'ultimo periodo, prima di essere ucciso nella strage di via D'Amelio, Paolo Borsellino si era chiuso in se stesso. Avvertiva l'esigenza di lasciare traccia scritta, visto che alcune cose non le raccontava a nessuno. Che si fosse chiuso, viene fuori in modo plastico dal fatto che abbandonò l'abitudine di tenere la porta spalancata del suo ufficio. Era un punto di riferimento per idee, era perfino troppo aperto nel raccontare quello che aveva fatto. Capitava anche di suonare il citofono e lui diceva: scusa passa più tardi. Blindava le informazioni di cui era a conoscenza, e usava il suo diario", quell'agenda rossa scomparsa nel nulla.

Vincenzo Scarantino, accusato di calunnia nel quarto processo per l'attentato a Borsellino, ha approfittato dell’udienza di ieri per chiedere scusa. "Chiedo scusa ai familiari delle vittime e alle persone offese. Tante volte nel 1995, nel 1998 ho cercato di dire la verità. Ho detto che quelli che mi hanno condotto a mentire sono stati La Barbera, Bo, Giampiero Valenti e Mimmo Militello e mi spiace perché ogni volta devo essere giudicato come il carnefice".
Scarantino è imputato per il depistaggio dell'inchiesta che ha portato alla condanna all'ergastolo di otto innocenti. Il falso pentito ha ritrattato più volte le accuse originarie sostenendo di essere stato costretto a mentire e a tirare in ballo persone estranee alla strage Borsellino da alcuni poliziotti (come Arnaldo La Barbera, poi morto, Salvo La Barbera, Mario Bo): 4 funzionari di polizia per le sue rivelazioni sono indagati a Caltanissetta.

"Ho sempre detto che della strage non so niente - ha aggiunto durante le dichiarazioni spontanee - e che mi hanno indotto a fare le dichiarazioni. Finché avrò ultimo respiro cercherò di difendermi per togliere ogni dubbio della mostruosità che mi hanno addossato". "Mi hanno distrutto la vita sono 22 anni che non vivo più - ha proseguito - sono chiuso in isolamento e spero in Dio che esca la verità. Sono stato picchiato davanti ai miei figli e mia moglie mi hanno anche puntato la pistola addosso".

[Informazioni tratte da ANSA, Lasiciliaweb.it, Repubblica/Palermo.it]

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02 aprile 2014
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