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America farlocca: in Iraq non c'erano armi proibite e l'FBI ha speso un patrimonio per un software antiterrorismo inadeguato

Mentre la Casa Bianca ammette che in Iraq non c'erano armi di distruzione di massa, anche l'FBI fa la sua magra figura

18 gennaio 2005

In molti avevano sospettato l'inesistenza delle tanto famigerate armi di distruzione di massa irachene, da poco prima di Natale anche la Casa Bianca ha dovuto ammetterlo.
La caccia alle armi proibite di Saddam è finita verso la metà del dicembre: dopo due anni di ricerche continue l'Iraq Survey Group - la task-force di milleduecento uomini (militari, specialisti dell'intelligence e staff di supporto logistico-amministrativo) non avendo trovato alcuna prova concreta della loro esistenza ha smontato baracca e burattini e ha fatto ritorno negli Stati Uniti.
Il The End ufficiale sarà comunque posto sulla questione nel momento in cui verrà pubblicato il rapporto finale di Charles Duelfer, il capo dei cacciatori di armi, previsto per il prossimo mese.

Nei giorni scorsi, il portavoce della Casa Bianca, Scott McClellan, ha però anticipato che il nuovo rapporto "non cambierà le linee fondamentali di quello precedente"; rapporto in cui Duelfer e i suoi uomini avevano messo per iscritto come in due anni di lavoro meticoloso, dopo aver ispezionato decine di siti segreti, perquisito tutte le installazioni militari, le fabbriche e i laboratori del passato regime e nonostante l'arresto e gli interrogatori di decine di scienziati iracheni impegnati per anni nei diversi progetti nucleari di Saddam Hussein, non era emersa alcuna prova certa che il dittatore di Bagdad fosse in possesso di armi di distruzione di massa quando - in seguito agli attacchi terroristici dell'11 settembre - l'amministrazione di George W. Bush aveva deciso di attaccare l'Iraq.
Nel primo rapporto di Charles Duelfer, che risale al settembre 2004, era stato inoltre precisato che non solo Saddam Hussein non aveva armi di sterminio e non ne aveva costruite dal 1991 (anno della prima guerra del Golfo) ma che negli ultimi anni il regime iracheno non aveva neanche la capacità tecnologica e finanziaria per costruirne di nuove.
 
Quindi, quali adesso le giustificazioni della Casa Bianca sulle motivazioni ufficiali con cui si motivò la guerra?
L'amministrazione Bush difende appieno la scelta con la motivazione che - armi o non armi - il mondo adesso è "più sicuro" da quando Sadda Hussein è stato spodestato e i marines hanno posto fine ad uno dei regimi dittatoriali più sanguinari dei tempi moderni. ''Gli iracheni sono finalmente liberi e l'Iraq servirà d esempio per la democratizzazione dell'intera regione'' hanno detto.

Di conseguenza, invece di ammettere di aver preso un colossale granchio (ma il nostro cuore c'è lo dice che la volontà di attaccare l'Iraq, l'America comunque ce l'aveva) e a limite chiedere scusa, l'amministrazione Usa chiude il discorso con un ''missione compiuta'', che non convince nessuno.
Ma la ricerca a vuoto delle armi di distruzione di massa non è l'unico buco nell'acqua fatto dalla bella compagnia del cowboy George W. dopo l'11 settembre. Si è infatti scoperta la totale inadeguatezza di un sofisticato e costosissimo (costato 170 milioni di dollari, circa 130 milioni di euro) software antiterrorismo ordinato dall'FBI dopo l'attacco alle Torri Gemelle.
Nelle intenzioni dell'FBI, il software avrebbe dovuto permettere agli agenti di condividere informazioni in tempo reale, risolvendo così una delle principali criticità emerse durante gli attacchi alle Torri Gemelle di New York. Il "Virtual Case File", questo il nome del programma, si è invece rivelato antiquato e insoddisfacente.
L'Fbi aveva deciso di rivedere il sistema di condivisione delle informazioni nell'agenzia dopo aver scoperto l'esistenza di un documento interno che, fin da luglio 2001, segnalava la presenza negli Stati Uniti di terroristi pronti a sferrare un attacco su vasta scala dirottando aerei civili. Il rapporto era stato inviato al quartier generale dei federali, ma era stato notato solo dopo gli attacchi.

- ''Il dossier Kay'', dal Corriere della Sera

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18 gennaio 2005
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