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Ancora morti nel Canale di Sicilia

Un altro tragico naufragio: ''Li abbiamo visti annegare davanti ai nostri occhi...''

07 giugno 2008

E' attraccato a Porto Empedocle (AG) il pattugliatore 'Sirio' della Marina Militare, con a bordo i tredici cadaveri di immigrati clandestini vittime di un naufragio, recuperati ieri su segnalazione di una motopesca di Mazara del Vallo (TP). Sulla nave anche i 27 clandestini salvati dai pescatori, tra cui sette donne.
Intanto continuano gli sbarchi. Cinquanta immigrati, tra cui sei donne, sono stati soccorsi all'alba di oggi a Sud dell'Isola delle Correnti, nel siracusano, da una motovedetta della Guardia di Finanza del Reparto Operativo Aeronavale di Palermo in navigazione per attività antimmigrazione. Sono stati intercettati due natanti in vetroresina su cui si trovavano i cinquanta clandestini. Gli immigrati sono stati trasbordati a bordo della stessa unità poi diretta verso Portopalo di Capo Passero (SR). La segnalazione della presenza dei migranti è pervenuta tramite la Sala di Controllo del Gruppo Aeronavale di Messina che a sua volta ha ricevuto notizia dalle autorità maltesi.

L'ennesima tragedia - "Li abbiamo avvistati ieri pomeriggio (giovedì 5 giugno per chi legge, ndr), a 55 miglia a nord delle coste libiche. Erano una trentina, su una barchetta in vetroresina che arrancava a causa del mare grosso e del vento forte. Quando ci hanno visto si sono diretti subito verso di noi, ma quando erano ormai a pochi metri un'onda assassina li ha travolti e sono finiti tutti in acqua... Ventisette siamo riusciti a issarli a bordo, altri li abbiamo visti annegare davanti ai nostri occhi". E' questo il racconto di Gaspare Marrone, comandante del peschereccio Ariete, della marineria di Mazara del Vallo.
"Urlavano e chiedevano disperatamente aiuto - ha raccontato ancora il capitano Marrone - ma le nostre manovre erano rese difficoltose dalle grande gabbia per l'allevamento dei tonni che stavamo trainando. Così ho deciso di mollare la gabbia e di soccorrerli: 27 siamo riusciti a issarli a bordo, altri li abbiamo visti annegare davanti ai nostri occhi". Continua a riperterlo il capitano, come per dire a se stesso: "perché non siamo riusciti a portarne in salvo qualcuno in più...".
"Sono sopratutto somali - ha detto Marrone - anche se tra di loro c'è qualche senegalese. Dopo averli salvati abbiamo riagganciato la gabbia e abbiamo fatto rotta verso la nave della Marina, che ci ha raggiunto all'alba, per compiere il trasbordo. Solo dopo abbiamo saputo che i corpi di quei poveracci erano stati ripescati".

Sono tredici i cadaveri che sono stati recuperati ieri mattina dalla nave Sirio della Marina Militare, che ha raggiunto la zona per partecipare alle ricerche dei dispersi.
Secondo il comandante della Capitaneria di Porto di Palermo Francesco Galipò, che ha coordinato le operazioni di ricerca e soccorso, i corpi di tre immigrati sarebbero però in avanzato stato di decomposizione e dunque non sarebbero vittime del naufragio avvenuto l'altro ieri davanti al motopesca Ariete. Lo stato dei cadaveri denota infatti una lunga permanenza in mare. Nei giorni scorsi, otto cadaveri di migranti erano stati sospinti dal mare nelle acque dell'isola di Lampedusa e in quelle di Licata, sulla costa agrigentina. Venerdì scorso un altro cadavere è stato recuperato nel mare di Linosa.

Concluse le operazioni il pattugliatore della Marina, con il suo carico di sopravvissuti e di morti, ha fatto rotta verso Porto Empedocle dove è attraccato stamane. Il comandante Marrone con i suoi sei uomini del suo equipaggio hanno ripreso la loro attività. I marinai dell'Ariete, del resto, non sono nuovi a questi interventi di soccorso: il 28 novembre dell'anno scorso riuscirono a trarre in salvo altri 54 immigrati, tra cui sette donne e un neonato di pochi mesi, che avevano fatto naufragio a trenta miglia da Lampedusa. In quell'occasione un marinaio tunisino si gettò in mare per aiutare le persone che non sapevano nuotare; grazie al suo coraggio il bilancio fu di una sola vittima. "La legge del mare - ha spiegato il capitano Marrone - ci impone di aiutare chi è in difficoltà, anche a rischio della nostra vita. Abbiamo fatto solo il nostro dovere, adesso torniamo al lavoro. Staremo in mare ancora venti giorni, poi, finalmente, torneremo a casa".

"Quello che è accaduto è l'ennesima dimostrazione di quanto sia pericoloso il Mediterraneo per chi cerca di attraversarlo, sia per fuggire dalla guerra o per cercare condizioni di vita migliori - ha detto Laura Boldrini, portavoce in Italia dell'Alto commissariato Onu per i rifugiati -. La grande sinergia tra i pescatori e le istituzioni italiane, come la Guardia costiera e la Marina militare, ha evitato che il bilancio del naufragio fosse ancora più pesante".

[Informazioni tratte da Adnkronos.com e La Sicilia.it]

A PICCO CON LA BIBBIA IN MANO. IL NAUFRAGIO DI 380 FANTASMI
Reportage di Michele Farina (Corriere.it, 07 giugno 2008)

METLAOUI (Tunisia) - «Qui stavamo ancora ridendo». Isham fa partire il video, 26 secondi di felicità sul telefonino: ragazzi sul ponte, sdraiati sopra il gabbiotto del timone, i delfini velocissimi... «Eravamo noi lenti. Pesanti: in 380 su un coso che poteva portarne sì e no la metà». L'audio è una canzone in arabo: «Italia, Italia, Italià, mi sentirò bene solo quando sarò all'Italià...». Non ci sono mai arrivati «all'Italià». Dopo 9 ore di navigazione lo scafo (15 metri) comincia a imbarcare acqua a poppa. Lampedusa è a 15 ore. Il legno marcio del peschereccio acquistato dai trafficanti libici in Tunisia, il peso, un'ondata maligna, una falla nella stiva. «Abbiamo fatto salire le donne e i bambini - racconta Abdallah -. C'era una pompa, ma non funzionava. Abbiamo cominciato a tirar su l'acqua con le taniche del carburante». Catena umana. C'è chi ricorda «una nigeriana che stringeva una bibbia in mano».
Erano le 14 di un giorno di quasi primavera quando un ragazzo ha sentito il timoniere egiziano: «Non ce la faremo». L'odissea dei 380 clandestini sarebbe finita in tragedia 8 ore dopo, al buio, a poche centinaia di metri dalla costa dove era cominciata: Libia, Zawia, fuori Tripoli. Isham mostra una foto: suo cugino Wisam aveva 18 anni, è sepolto oltre la fabbrica dei fosfati che adesso non assume più, l'unica di questo impasto di case e deserto chiamato Metlaoui, 400 chilometri a sud di Tunisi.

La notte del 19 marzo 2008 Wisam Goma non è stato l'unico passeggero del barcone bianco e verde ad annegare nel Mare Nostrum. Difficile arrivare al numero esatto delle vittime. Difficile tutto, nella ricostruzione di una tragedia che ha visto 380 signori nessuno per ore alla deriva nel Mediterraneo. Questa è la storia di un naufragio fantasma, di una barca che ufficialmente non è mai partita dalla Libia così come non è mai partita un'inchiesta giudiziaria. I nomi dei testimoni sono stati cambiati. Fonti della polizia di frontiera confermano al Corriere 17 salme tunisine. Ricordando le liste fatte circolare nelle prigioni libiche, diversi sopravvissuti parlano di una quarantina di vittime. Sul peschereccio erano stipati nordafricani, egiziani, ma anche senegalesi, nigeriani e somali in fuga dalla guerra civile. Metà tunisini, e di questi 54 sono partiti da qui, Metlaoui.
Dalla città grigia dei fosfati viene un ragazzo che ha avuto più fortuna. Stessa tratta, qualche giorno dopo. Da un mese fa il bracciante in Sicilia. È contento. Dalla sua voce è arrivato al Corriere il passaparola di questa storia: una telefonata a casa, le prime notizie sul naufragio, l'arresto dei sopravvissuti, la violenza, le ingiurie, il lento ritorno, l'attesa di una nuova partenza. Zizou è tornato a Metlaoui una settimana fa. Due mesi in prigione l'hanno segnato. «Quando è arrivato non l'ho riconosciuto» dice il padre. Disoccupato, come tanti. Per pagare i 5.000 euro del passaggio per i due figli ha venduto la casa. I ragazzi si sono salvati, il resto no. Adesso sono in affitto, pochi mobili. Zizou ha ricominciato a lavorare: trasporta sabbia dal deserto per tre dinari al giorno (meno di due euro). Nessuno sa che la legge in Italia (e in Europa) sta cambiando. Il reato di clandestinità, reclusione fino a 18 mesi... «Meglio una galera in Italia che il nulla qui» sbotta il padre. Zizou annuisce. I compagni di naufragio sono d'accordo.

Ali, 30 anni, vende angurie. Ha vissuto cinque anni a Padova, 2 in galera per spaccio. Rispedito in Tunisia nel 2007. Dice che l'ha denunciato «la moglie napoletana». «Ha detto alla polizia che non vivevamo insieme». Perché? «Non le passavo più 500 euro al mese». Un matrimonio d'interesse: «Vai a Napoli, paghi 6.000 euro e ti sposi in Comune. C'è un mediatore. Un tunisino. Arrivo alla stazione. Lui arriva con una cinquantenne sul motorino. "Tua moglie", mi fa in arabo. "Così anziana?", dico io. E lui: "Devi forse andarci a letto?". Il giorno dopo a un mio amico è andata peggio: un'ottantenne in sedia a rotelle». E in Comune? «Tutto combinato». Perché non a Padova? «Lì non ti sposano neanche per 50 mila euro. Razzisti!».
Ride, Ali. Ma quando parla dell'ultimo viaggio la faccia diventa dura. «Volevano farci morire». Con l'acqua nella stiva, l'egiziano al timone chiama il boss libico. «Quel bastardo dice che viene un peschereccio ad aiutarci. Dopo 4 ore ancora niente. Alla fine appare un gommone con una pompa. Neanche quella funziona». Secondo un sopravvissuto poi giunto in Italia, Mohammed, i libici sul gommone (4 armati) avevano l'ordine di affondare la barca. Ma si sono impietositi quando qualcuno a bordo ha alzato i bambini in aria. Il barcone che affonda arranca verso la costa. Arriva a un vecchio porto. Il sollievo delle luci, la paura della polizia. Questa è la Libia di Gheddafi. Il peschereccio è fermo a poche centinaia di metri da riva. C'è chi grida «affondiamo», chi sente degli spari. Si buttano. È il caos. Una nigeriana incinta è la prima ad annegare. A riva gli agenti accolgono i superstiti con i manganelli elettrici. I naufraghi passano settimane in quattro prigioni. Le famiglie pagano gli avvocati che pagano chi di dovere. «Gli agenti pisciavano nel pozzo dell'acqua». Nuovi arrivi: «Un giorno sono arrivate 26 nigeriane. Quelle con i soldi sono uscite, le altre le violentavano gli agenti, una era incinta». Zizou racconta di alcuni somali che stanno là da anni senza processo. Il traffico parte dalla Libia. Meno dalla Tunisia, che ha inasprito le pene per gli scafisti. Si attraversa il confine con i passatori. Di là qualcuno ti porta in un centro di raccolta, una casa abbandonata. Isham giura di essere arrivato su un camion militare libico. «È un business dove mangiano in tanti». La Libia è uno Stato di polizia efficiente, difficile agire senza coperture. I migranti restano chiusi giorni prima di essere condotti alla spiaggia. Da lì in gommone fino al peschereccio. «Italia, Italia, Italià, mi sentirò bene solo quando sarò all'Italià...».

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07 giugno 2008
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