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Andare via dall'Iraq

Il premier Berlusconi torna a parlare di ''exit strategy'' delle truppe italiane dall'Iraq, in un periodo difficile per la Casa Bianca

31 ottobre 2005

Più di duemila soldati americani morti,  la Casa Bianca sotto pressione per gli scandali del Ciagate e del Nigergate, l'Iran che lancia anatemi contro il sionismo mondiale e lo stato di Israele.
Per la situazione mediorientale sembra non esistere alcun risvolto positivo, né questi si intravedono all'orizzonte. Stessa cosa per i contingenti, americani e stranieri, che continuano a vivere, loro malgrado, all'interno di una situazione che, nonostante l'avviato processo a Saddam Hussein e agli ultimi risultati del referendum, continua ad essere fronte altamente pericoloso e scosso da un inquietante, continuo fermento terroristico.

Mentre anche il contingente italiano continua la sua ''missione di pace'' in Iraq, sempre più italiani si rendono conto di essere contro la prosecuzione dell'occupazione del territorio iracheno, presa di coscienza che diventa un problema per il governo sempre più vicino alla campagna elettorale. Problema che si acuisce se pensiamo a quale peso l'Italia possa avere avuto nello scandalo sul Nigergate (leggi).
Punti dolenti che giocano fortemente a sfavore del governo Berlusconi, che tenta subito di studiare quale maniera può essere la migliore per accattivarsi le simpatie di un ''pubblico'' che sembra non volere più i suoi ''programmi'' politici.
E una nuova possibile presa di posizione governativa, che vede la progressiva uscita dell'esercito italiano dall'Iraq, Silvio Berlusconi l'affida alla pregnante figura mediatica di Bruno Vespa.
I soldati italiani si ritireranno progressivamente dall'Iraq e come, e quale sarà la exit strategy delle truppe nazionale, il presidente del Consiglio lo spiega nel nuovo libro di Bruno Vespa (in uscita nelle prossime settimane). Sono previsti rientri ''di 300 soldati alla volta per poi arrivare a ritirare tutti insieme gli ultimi mille''. Berlusconi precisa però che il rimpatrio dei soldati avverrà in accordo con gli alleati e le autorità irachene
''Strategia di uscita'' che il Cavaliere preferisce però ''success strategy'', ovvero, come spiega lui stesso ''strategia del successo nel cammino verso la democrazia''.

Ricordiamo che di ritiro delle truppe Berlusconi aveva iniziato a parlare lo scorso marzo, quando aveva annunciato una riduzione di contingente a partire da settembre. Il proposito era poi stato corretto con la clausola che la partenza dei soldati sarebbe stata condizionata alle intese con gli alleati e alla verifica della stabilità irachena.
Due mesi fu Gianfranco Fini ad affrontare la questione: il ''timing'' del ritiro delle truppe italiane coincide con ''l'ultimo atto del percorso indicato dall'Onu'', cioé dicembre 2005, diceva il vicepremier. Ma il governo iracheno potrebbe chiedere un mese o due di più di tempo per cui si potrebbe arrivare al gennaio o al febbraio 2006. Poi però aveva precisato: ''Non accadrà che l'Italia prenda una decisione di disimpegno dall'Iraq in modo unilaterale. C'è un governo eletto dagli iracheni e sono loro a chiederci di creare di condizioni di sicurezza, e proprio la sicurezza è un elemento centrale dal quale discenderanno le decisioni''.
Passati altri due mesi, l'8 luglio 2005, nella conferenza stampa a Gleneagles, dopo la conclusione del G8, Berlusconi tornava sull'argomento: La missione italiana in Iraq continua, ''gli impegni si mantengono'', diceva il presidente del Consiglio, tuttavia da settembre rimane confermato il ritiro iniziale di 300 militari italiani.
Il giorno dopo, puntuali, arrivarono le bacchettate per i cronisti rei, a detta del premier, di aver '''costruito castelli in aria''. Berlusconi chiarì che nessuna data sul rientro delle nostre truppe ''è stata mai fissata''. ''Era un auspicio: il ritiro dev'essere concordato con gli alleati''.
E sull'argomento si torna con cadenza bimestrale.

E sono infatti passati poco più di due mesi e il premier, prima di raggiungere gli Stati Uniti dove è atteso per un vertice dal presidente George W. Bush, e dopo le parole affidate a Vespa, in una intervista rilasciata a La 7 dice: ''La guerra in Iraq forse non è stata la scelta migliore [...] ero contro la guerra e tentai di persuadere Bush, ma lasciare adesso l'Iraq sarebbe un tradimento per quel popolo''. ''Non c'è un'alternativa - ha spiegato il premier nell'intervista a La 7 - Abbandonare prima che ci sia una vera democrazia il Paese significherebbe tradire tutti gli iracheni che anche a rischio della loro vita sono andati a votare; tradire tutti coloro che si sono impegnati per questa nuova democrazia compresi coloro che sono caduti, alcuni anche figli nostri; significherebbe consegnare l'Iraq ad una guerra civile cruenta e senza fine; significherebbe destabilizzare l'intera regione''.
Quanto all'ipotesi che la permanenza delle truppe straniere possa protrarsi per dieci anni, come ipotizzato dagli Usa, Berlusconi si è detto ottimista sul fatto che non sarà necessario. ''Sono sicuro - ha concluso - che non resteremo lì per così tanti anni e mi auguro che il processo di completa democratizzazione di quel Paese prenda molto meno tempo''.

In America, che le parole dell'alleato italiano facciano parte di una strategia di smarcamento studiata per prendere le distanze da una Casa Bianca inguaiata proprio dal conflitto iracheno, è il sospetto del Los Angeles Times secondo cui Berlusconi ''andando incontro ad una difficile rielezione, potrebbe tentare di prendere le distanze dal suo alleato, che è stato ultimamente preso d'assalto da alcune crisi che hanno eroso il consenso pubblico''. ''Anche Berlusconi - si legge ancora sul giornale americano - ha visto un calo di consensi, in parte per via dell'impopolare guerra in Iraq ma anche per la crisi economica''.
Sospetti che l'entourage del Cavaliere cerca di dissipare con forza, dichiarando che le frasi sull'Iraq non sono assolutamente ispirate dall'opportunismo e dall'attualità. ''In fondo - è quanto si sottolinea da Palazzo Chigi - non è un mistero che Berlusconi non volesse la guerra e che l'avesse già fatto presente all'amministrazione americana''. Lo mette per iscritto il vicepremier Fini: ''Berlusconi l'aveva già detto altre volte, anche in Parlamento: il governo italiano non ha mai ritenuto l'intervento militare in Iraq l'unica soluzione''.
Ma i sospetti rimango, e non soltanto in America.

Vogliamo ricordare che in Iraq sono attualmente dislocati circa 3 mila soldati di stanza perlopiù nella base di Nassiriya, nel sud dell'Iraq. La missione ''Antica Babilonia'' vede impegnate truppe dell'esercito e unità della Marina, dell'aeronautica e dei carabinieri.

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31 ottobre 2005
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