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Andrea Camilleri parla della messa in scena dello spettacolo tratto dal suo romanzo ''La concessione del telefono''

Camilleri: ''Il teatro? È pericoloso non lo controlli come la tv'' - di Rodolfo Di Giammarco

05 novembre 2005

''Azienda Camilleri, quanti impiegati ha? Qual è il fatturato annuo? Intende fondersi? Ha subito fallimenti?'' recita una comunicazione ufficiale dell'Istat da poco spedita per errore ad Andrea Camilleri, che reagisce sorridendo, spiega d'aver tentato di chiarire l'equivoco, ricevendo per tutta risposta ancora un formale sollecito.
''Il potere della burocrazia, fatto anche di labirinti e imprecisioni, non cambierà mai - deduce con tragicomico fatalismo - e figuriamoci se ha perso di senso un romanzo come 'La concessione del telefono' scritto da me nel 1998, una storia di malintesi e imbrogli sulle procedure per l'ottenimento d'una linea telefonica nella Sicilia dell'immaginaria Vigàta (il paese-crocevia di Montalbano e di ''Il birraio di Preston'', ndr), un testo diventato adesso commedia''.
Lo spettacolo, prodotto dallo Stabile di Catania, debutterà l'8 nella Sala Verga su riduzione dello stesso Camilleri e di Giuseppe Dipasquale che ne firma, come avvenne per Il birraio in forma di teatro, anche la regia, e protagonisti sono Francesco Paolantoni, Tuccio Musumeci e Pippo Pattavina.

A dover essere fiscali pure con l'anagrafe, lei ha la bellezza di 80 anni dal 6 ottobre. Ed è attivissimo. Come se la porta, l'età?
''Un tempo non pensavo d'arrivare al 2000 e invece ora sono un ottuagenario, a dispetto delle botti di whisky che bevo, e delle casse di sigarette che fumo. Non è che mi voglia bene, ma devo esprimere un grande grazie alla natura''.

Non dice ''grazie a Dio''...
''No, non sono un credente. Dio è un'entità troppo grossa per rientrare nei miei limiti razionali''.

E come vive la nostra epoca?
''Male. Certe volte sono restio a leggere i giornali, ad aprire la tv. È dura dappertutto, non solo in Italia. Non so se le mie difese si sono indebolite o se l'aggressività del mondo è cresciuta. Ma non sono pessimista. Il mio è un nero temperato. Non dispero nell'uomo''.

Lei è un autore tanto popolare quanto indipendente: qualcuno l'ha mai contestato o addirittura stroncato?
''Di rado. Nel 1958, quando ero regista e misi in scena Beckett ci fu il critico Chiaromonte che nelle pagine de Il Mondo pubblicò tre colonne sull'autore e poi altre tre colonne in cui dissentiva dal mio allestimento pur riconoscendogli nobiltà. Lo ringraziai, e ne tenni conto 15 anni dopo in tv. Adesso è diverso, il teatro rischia d'essere annullato, perché è pericoloso, mentre la televisione è addomesticabile''.

Lei è co-adattatore di ''La concessione del telefono'' ma una volta è stato anche autore in prima persona per la scena...
''Con il testo 'Giudizio a mezzanotte' vinsi nel 1947 il Premio Firenze ma ero così scontento di me che gettai il copione dal treno. Servì a farmi chiamare da Silvio D'Amico in Accademia e poi ho insegnato lì regia per 17 anni, vampirizzando i giovani, confrontandomi molto con loro''.

I problemi di quest'ultima conversione dalla pagina alla scena?
''Lo spazio, adeguato a sequenze non cronologiche, è tradotto in un muro di scartoffie e documenti che riflettono la burocrazia contro cui combatte (perdendo) Filippo "Pippo" Genuardi per ottenere dal Prefetto anziché dalle Poste una linea con cui chiamare la sua amante. Il montaggio è costato ben 8 stesure. Abbiamo integrato Paolantoni che appartiene al Regno delle Due Sicilie ma è napoletano, e per lui, per il suo Genuardi, s'è fatto ricorso a origini partenopee. D'altronde la realtà è italiana, più che solo siciliana''.

C'è di che ridere, nella versione teatrale?
''La linea della comicità è privilegiata, anche se il regista ha tenuto conto di un retrogusto amaro della faccenda. La mistificazione della parola è comunque e sempre una lama a doppio taglio, non crede?''.

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05 novembre 2005
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