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Appello per l'antropologo Franco La Cecla, arrestato a Parigi per aver rifiutato di essere...

...complice silenzioso del rimpatrio selvaggio di un cittadino congolese sans papiers

17 febbraio 2005

APPELLO PER FRANCO LA CECLA
Il celebre antropologo siciliano Franco La Cecla è stato arrestato il 15 dicembre 2004 all'aeroporto di Parigi ed è ora in attesa di giudizio.
In partenza per il Senegal, La Cecla ha rifiutato il ruolo di spettatore e complice silenzioso del rimpatrio di un cittadino congolese sans papiers.
Sull'aereo il cittadino disperato, piange, cerca di alzarsi. Gli agenti gli sbattono la faccia contro il sedile, gli prendono la testa e gliela premono per terra, gli infilano un guanto in bocca per farlo tacere.
Davanti alla scena una ragazza piange, un altro viaggiatore grida 'basta!', altri protestano, La Cecla e altri due chiedono di scendere... i passeggeri li applaudono.

La Cecla afferma: "le scene che ho visto sull'aereo sono terribili. Eseguire i rimpatri con i voli di linea significa costringere i civili a collaborare e ad assistere a tutto quel dolore. Io non sono tenuto a farlo".
Il comandante, sollecitato dalle proteste sui modi di trattare lo straniero decide di farlo scendere assieme alla scorta. L'accusa contro La Cecla è di "aver ritardato la partenza del volo... incitando i passeggeri a far sbarcare una persona non ammessa sul territorio nazionale francese e la sua scorta, contravvenendo alle regole di sicurezza e alle procedure di decollo".
La Cecla rischia 5 anni di carcere.

''Parigi-Dakar, un volo da paura'' di Franco La Cecla
da Il Manifesto del 18 dicembre 2004

Alle sette e mezza del mattino del 15 dicembre ci imbarchiamo su un aereo, charter, Air Horizon, alla volta di Dakar. Appena entriamo sentiamo delle urla provenire dal fondo. Ci hanno assegnato la penultima fila per cui quando ci avviciniamo ai nostri posti troviamo seduti in fondo due poliziotti e in mezzo, legato come un salame, un giovane africano che urla «je ne suis pas un esclave», «lasciatemi», «mamma», «mi fate male». Ha gli occhi fuori dalle orbite ed è paonazzo in volto. Urla come un disperato.
Preoccupati ci sediamo e i poliziotti ci dicono che non c'è problema, che appena l'aereo si alza in volo lui smette. Le hostess ci sorridono. Passa mezzora, poi tre quarti d'ora, l'aereo non parte e lui continua a urlare e piangere. I poliziotti lo fanno sparire ogni tanto , piegandolo (è ammanettato dietro) e mettendogli un guanto sulla bocca e gli dicono che se non la smette sono obbligati a fargli questo. I passeggeri sono visibilmente sconvolti. L'aereo è pieno, ci sono bambini, famiglie. Siamo in varie persone ad alzarci, infine io e un giornalista presente andiamo dal comandante e gli diciamo che non riusciamo a pensare di potere volare in queste condizioni. L'amica che ho accanto si sente male, un senegalese che soffre di cuore si aggiunge a noi e dice al comandante che ha paura e che non può volare così. Gli chiediamo di farci scendere.

L'aereo è ancora attaccato al tubo del terminal. Lui dice che si occuperà della cosa. Dopo qualche minuto annuncia che dati i suoi poteri ha deciso di fare scendere il clandestino e la polizia. Poi viene da noi che ci siamo seduti e ci chiede di dargli il passaporto perché ha bisogno dei nostri nomi per sostenere la sua decisione. Quando ci chiama più tardi per ridarci i passaporti dice di venirli a prendere all'entrata dell'aereo. Appena siamo lì, veniamo ammanettati dai poliziotti e trascinati fuori con strattoni. Chiediamo spiegazioni, loro ci strattonano ancora, ci mettono in una camionetta e ci conducono al posto di commissariato dentro all'aeroporto. Lì ci notificano che siamo «guardes a vu», guardati a vista. Ci chiedono le generalità e poi ci mettono separati in cella. Chiediamo il motivo e loro dicono che passeremo dei seri guai e che ci siamo messi in una storia molto pericolosa per noi. Veniamo perquisiti, ci fanno spogliare completamente e poi rivestire e poi ci levano tutto, occhiali, lacci, orologio, portafogli, beni personali. Dicono che abbiamo diritto alla visita di un medico e che loro facciano per noi una telefonata. Poi ci chiudono in cella. Sono le 9 del mattino quando entriamo e saranno le 19 quando finalmente ci fanno uscire. Nessuno ci comunica quando usciremo. Ci chiamano uno ad uno ad essere interrogati.

Nel frattempo altri poliziotti raccontano che il clandestino, espulso, si è lanciato contro un pilone a punta per suicidarsi ed è in ospedale. Arrivano notizie che l'aereo non è partito, che i passeggeri non vogliono partire senza di noi. L'aereo finalmente parte alle 16, alcuni passeggeri sono nel frattempo scesi. Sapremo che hanno dichiarato di essere tutti disponibili a testimoniare in nostro favore. Quando ci interrogano i capi d'accusa sono incitazione alla rivolta e «entrave» cioè avere ostacolato un volo, in seguito corretto in avere bloccato una procedura di espulsione. Io sono accusato di avere detto agli agenti che quello che facevano era una tortura - cosa che non ho mai detto loro - e che non capivo perché utilizzavano un charter e non un volo di linea normale o un volo militare. Il poliziotto capo che mi interroga mi da ragione sull'ultima cosa. A lui spiego la mia versione e gli ricordo che nei diritti dei passeggeri c'è quello di abbandonare un aereo che non è ancora partito se hanno paura o stanno male. Torno in cella. Poi mi richiamano per prendermi le impronte e farmi le foto segnaletiche. Adesso sono schedato come un pericoloso dirottatore. Passano le ore in cella e finalmente ci liberano. Il posto è sporco, affollato, i poliziotti sono chiaramente del fronte nazionale e manifestano un atteggiamento razzista verso le persone di colore che arrivano, e trattano tutti con estremo disprezzo. Quando ci rilasciano, ci dicono che probabilmente non procederanno contro di noi e che possiamo invece tra qualche mese, quando si aprirà il processo o meglio l'istruttoria, denunciare il comandante dell'aereo. Ci fanno firmare una dichiarazione di rilascio e non ci danno alcun foglio che dimostra che ci hanno detenuto. Usciamo sconvolti e ci vediamo noi tre dell'aereo e ci mettiamo d'accordo per chiamare la televisione nazionale, France 2 e France 3 e di prendere un avvocato.

L'indomani alle 9 e 30 facciamo l'intervista che verrà diffusa più volte durante la giornata e che include una dichiarazione del capo della polizia che dice che rischiamo 5 anni di prigione e settemila euro di ammenda, e che siamo accusati di incitazione alla rivolta, di impedimento di un atto di espulsione e di insulti alla polizia. L'accusa di violenza nei loro confronti viene subito ritirata. Scopriamo che una cosa analoga era avvenuta il giorno prima e che l'aereo non era partito, ma che è la prima volta che tre passeggeri passano dieci ore in cella per avere manifestato il proprio malessere di fronte a quello a cui erano costretti ad assistere.

Franco La Cecla è nato 54 anni fa a Palermo. E' docente di antropologia alla facoltà di Architettura di Venezia, dopo aver insegnato a Berkeley, Parigi, Ravenna e Palermo. E' stato professore invitato alla Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, dove vive da dieci anni. Ha pubblicato una decina di saggi antropologici e sociologici ritenuti all'unanimità  fra i più interessanti degli ultimi decenni.

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17 febbraio 2005
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