Aumentate, rispetto al 2003, le retribuzioni orarie dei lavoratori dipendenti italiani
Ma sono circa 4 milioni i lavoratori precari che pur lavorando rimangono poveri
Gli ultimi dati raccolti dall'ISTAT sulle retribuzioni contrattuali orarie dei lavoratori dipendenti italiani, attestano un aumento dello 0,5% rispetto ad aprile e del 3,3% rispetto a maggio 2003. Valori superiori al 3%, comunica l'Istat, non si registravano dalla fine del 1997.
L'aumento registrato nel periodo gennaio-maggio 2004, rispetto allo stesso periodo del 2003, è stato del 2,7%. Alla fine di maggio 2004 i contratti collettivi nazionali di lavoro riguardavano 6 milioni di lavoratori dipendenti. Nell'analisi compiuta dall'Istat a proposito dei contratti collettivi e delle retribuzioni contrattuali si rileva che l'incremento generale registrato a maggio 2004 ''deriva esclusivamente dal recepimento di cinque rinnovi contrattuali nei settori calzature, lapidei, edilizia, agenzie recapiti espressi e personale nei livelli del servizio sanitario nazionale. Solo quest'ultimo settore, è stato spiegato, ha pesato per il 56%.
L'indice delle retribuzioni orarie contrattuali per l'intera economia, in base alle sole applicazioni previste dai contratti per l'anno in corso, registrerebbe un incremento del 2,4%. Di questo aumento complessivo, spiega l'Istituto di statistica, più della metà (1,3%) sarebbe determinato dai miglioramenti previsti per il 2004, mentre la parte restante (1,1%) deriva dalla dinamica registrata nel 2003. A fine maggio 2004, la quota di contratti nazionali vigenti, relativa all'intera economia, è pari al 46,4% di quelli osservati e corrisponde a 40 accordi che regolano il trattamento economico di circa 6 milioni di dipendenti.
Non bisogna tuttavia scordare, che nella popolazione dei lavoratori italiani circa 4 milioni e mezzo sono senza stabilità, una popolazione lavorativa inserita all'interno di tanti inquadramenti ma che percepiscono pochi soldi in una quotidiana scarsezza di garanzie. E' il popolo dei lavoratori part-time, di chi fa apprendistato, formazione, il popolo degli stagionali e degli interinali, in poche parole la popolazione dei "poveri che lavorano".
Emblema di questa grande popolazione, non compresa nei succitati dati Istat, sono i co.co.co. i "collaboratori coordinati e continuativi", ossia tutti quei lavoratori che pur lavorando non hanno il posto fisso e, del posto fisso, ovviamente, non possono goderne i vantaggi, quali l'elementare stipendio sicuro e le relative sicurezze nell'oggi, una discreta pensione nel domani.
Non bisogna dimentire, a questo punto, di tutte quelle figure lavorative atipiche che campano veramente alla giornata, dai ragazzi di Mc Donald's , di Virgilio o di Tim, alle donne senza età delle imprese di pulizia e di tanti call center.
Precari veri, nel tempo, nei soldi, nelle garanzie. Quanti siano esattamente non si sa: i collaboratori, detti anche parasubordinati, sono due milioni e mezzo, calcolati sulla base delle "posizioni" Inps, ma non è chiaro il numero esatto di quelle ancora attive (e dal numero andrebbero sottratti i "ricchi" che hanno scelto a ragion veduta quel tipo di contratto). Poi ci sono 250 mila lavoratori interinali e una vera moltitudine di appesi ai contratti più disparati: part time, apprendistato, formazione lavoro, stagionali, associazione in partecipazione.
"Un esercito di quattro milioni", calcola la NIdiL-Cgil, l'organizzazione che da un paio d'anni è diventato un punto di riferimento per gli atipici, "vittime spesso di abusi".
Vero è che a volte si tratta di scelte, nate dall'esigenza di avere tempo libero per sé o per studiare o per curare la famiglia. Più spesso però sono condanne, talora a vita.
Per i giovani la risultante di questa condizione, come dice tra l'altro una specifica ricerca del Censis, è che i co. co. co., per esempio, fluttuano nel presente tra lavoro e famiglia. Questa torsione sull'oggi, da prettamente economica, diventa quasi antropologica, addirittura filosofia di vita: in una società senza direzione di marcia unitaria cresce la tendenza a concentrarsi prevalentemente sulla dimensione contingente. "Ci penserò domani", ha sintetizzato il direttore del Censis Giuseppe Roma. "Si tratta di figli legittimi di una società annicchiata nel presente che tende a consumare il patrimonio accumulato piuttosto che ad utilizzarlo per creare nuova ricchezza.
La soddisfazione per la condizione professionale attuale, quando c'è, è strettamente associata alla sua percezione come di una realtà transitoria in attesa di altre ipotesi lavorative. Ma per sopravvivere è spesso necessario ricorrere i genitori per ottenere aiuto (lo fa il 74% degli interpellati, addirittura l'86,6 % nel sud e nelle isole), rallentando la capacità economica e la propensione al consumo dei genitori.
La flessibilità ha indubbiamente permesso di incrementare l'occupazione, ma la condizione e il potere contrattuale dei lavoratori sono divenuti più fragili.
I precari non hanno ovviamente la cassa integrazione riservata alle grandi aziende industriali, prevista per periodi brevi ma spesso prorogata per anni. E la mobilità, che scatta in casi particolari, valutati tra governo, aziende e sindacati e garantisce circa l'80 % della retribuzione in attesa di ricollocamento, è un sogno proibito consentito, se va bene, a chi ha un contratto a tempo determinato.
Quelli che non sono working poors, "poveri che lavorano" secondo la classificazione sociologica, hanno buone probabilità di diventare indigenti tra qualche anno.