Avventura di Natale
di Cesare Zavattini
Ero arrivato a Vienna il giorno prima. Alla sera dovevo recarmi allo Chat Rouge, dove ero stato assunto in qualità di cameriere. Avevo abbandonato un eccellente posto a Parigi, al Café de la Coupole, per la mia smania di viaggiare, di veder nuova gente, nuovi cieli. La conoscenza perfetta di quattro lingue, la figura distinta e le commendatizie di sir Batman, consigliere delegato della Società Internazionale dei Grandi Alberghi, mi aprivano tutte le porte: per ciò mi era stato facile collocarmi allo Chat Rouge che era il tabarin più lussuoso della capitale austriaca.
Passeggiavo per le strade, ammirando l'architettura armoniosa dei palazzi e quella gaiezza del traffico che è una caratteristica dell'allegra metropoli. Era il capodanno e sui volti delle persone, nelle vetrine splendidamente ornate, e perfino nell'aria, c'era il segno della leggiadra solennità. Anch'io partecipavo a quella mattutina letizia, il mio passo era leggero, molti felici propositi mi riempivano l'animo, guardavo le donne con una curiosità piccante, e vogliosa d'avventura.
Attraversai una piazzetta quasi deserta. Due ragazzi, uno mingherlino e alto, l'altro tozzo, stavano accapigliandosi. Svagato come ero bastava un nulla a distrarmi: infatti mi trovai lì fermo a guardare la scena. A un tratto notai che il ragazzo tozzo. mentre con una mano teneva per il petto l'avversario, con l'altra mano cercava di aprire un temperino. Mi precipitai istintivamente sui due contendenti; nello steso momento scoppiavano in una sonora risata: e perfino la bottiglia pareva partecipare del loro stato d'animo ondeggiando sul tavolo quasi per magia, ma a tutto ciò non doveva essere estraneo un complicato movimento di piedi sotto il tavolo. Lo guardavo, guardavo, e sempre più mi sentivo solo, improvvisamente infelice, ostile al mondo.
Sì, la vita è bella, il mondo è vario, ma senza l'amore ogni cosa sfuma nel nulla, tutto diventa ragione di tormento.
Un signore, sui calzoni del quale avevo, per colpa del mio vaneggiare, versato alcune gocce di champagne, mi redarguì bruscamente. Io stavo per scusarmi quando, come sorta dal sogno, vidi a pochi passi da me, vicino alla scala che portava all'entrata, Mary, lei, viva e bellissima.
Che cosa passasse nel mio cervello durante lo spazio di due o tre secondi sarebbe molto difficile dire, certo che piuttosto di farmi scorgere da Mary nelle mie vere funzioni avrei dato fuoco allo Chat Rouge, avrei ucciso il proprietario, mi sarei ucciso io stesso. Ero proprio nel pieno della mia tempesta intima quando gli occhi di Mary caddero su di me. Diventai pallido, orribilmente pallido, ma anch'essa non seppe nascondere un profondo turbamento. Per chi sa quale ispirazione, e prima che ella facesse in tempo a formulare una qualsiasi ipotesi, mi avvicinai a lei e con la voce un po' affannata le dissi: "Che piacere, Mary, sedete... Sono venuto qui a passare un'ora". E ci sedemmo a un tavolino, sotto a un abat-jour di seta. Mary disse: "Anch'io sono venuta qui, così, a passare un'ora..."
Vi furono alcuni minuti di penoso silenzio. Ora non più i pensieri di prima, ma altri non meno atroci mi laceravano. Che cosa era venuta a fare Mary allo Chat Rouge? A quell'ora? Mezzanotte era suonata da un pezzo, e una donna sola, bella, non va in un tabarin con dei propositi innocenti. Dunque, dunque... E più la guardavo e più mi pareva bella, più sentivo di amarla.
A un tratto ritornai in me stesso. Vidi un vecchio signore con una piccola cocotte sedersi a uno dei tavoli che entravano, per così dire, nella mia giurisdizione. Il vecchio signore si guardava a destra e a sinistra, evidentemente in cerca di un cameriere. Bisognava evitare che egli chiamasse, o che si lagnasse, insomma che attirasse 1'attenzione del mio direttore. Per fortuna la sala era stipatissima, i balli si susseguivano ai balli, il lancio dei coriandoli e delle stelle filanti era al diapason ,sicché in tal festosa baraonda mi era stato possibile occultarmi un poco. Ma ora il pericolo era imminente.
Dissi: "Permettete, Mary, vado a salutare lord Benson..."
Andai dritto al tavolo del vecchio signore, feci un inchino, presi l'ordine, lo passai al cameriere in seconda e in un baleno ritornai da Mary.
Stemmo ancora un poco l'uno di fronte all'altra senza dir parola. L'imbarazzo di Mary, il suo pallore, aumentavano incredibilmente i miei sospetti. In quale avventuriera mi ero imbattuto? Forse, da un momento all'altro doveva capitare il suo compagno o qualche cliente... Sì, qualche cliente...
Ella disse con un filo di voce: "Ballate?"
Non so come, ci trovammo confusi tra la folla dei ballerini, soffocati dalle note eccitanti di un tango. Sentivo il suo corpo sottile e ben fatto, il profumo dei suoi capelli, vedevo il brillare dei suoi denti. A uno a uno i cattivi pensieri sparirono e rimase soltanto la realtà, Mary fra le mie braccia, Mary che mi stringeva la mano con amorosa insistenza... Che importava la verità? Sentivo che in quel momento essa era mia, che mi amava, che per qualunque ragione fosse stato, anche il suo turbamento era un segno d'amore.
Navigavo su una vela d'oro tra le nubi, quando una mano pesante mi batté su una spalla: "Hans, siete matto? Nel nostro locale questo non si usa... Andate a servire i clienti..."
E scorsi il viso serio ed energico del mio direttore. Non avevo ancora ripreso i sensi, posso proprio dire così, che la voce severa del direttore continuò: "E voi, Mary, come mai simile licenza?" Presto, tornate al vostro posto. Sia la prima e l'ultima volta che lasciate il guardaroba senza sorveglianza..."
Alle cinque del mattino, spente tutte le luci, mentre il facchino cominciava la pulizia dei pavimenti, uscii dallo Chat Ruge. Nevicava. Sul marciapiedi c'era un'ombra immobile.
"Mary."
"Hans."
La presi sottobraccio e, senza dir parola, insieme ci avviammo, colmi di un’infinita letizia.
(da Al macero, in Opere, 1931-1986, Bompiani)