C'è il rischio che le carrette del mare portino in Sicilia anche jihadisti infiltrati
E nei porti siciliani scattano, sotto richiesta del Viminale, i controlli antiterrorismo
Sono state stabilite a Palermo le procedure da adottare per dare corso alla nota diramata dal Viminale per sollecitare maggiori controlli antiterrorismo. Il ministro dell’Interno ha infatti diramato una nota riservata per sollecitare controlli più intensi su traghetti e aliscafi utilizzati da cittadini provenienti dal Nord Africa o dal Medio Oriente. L’allarme è scattato anche in altri porti siciliani, come Trapani, dove arrivano i traghetti da Tunisi e a Catania e Pozzallo, collegati con Malta. La prima operazione di controllo è avvenuta domenica scorsa a Palermo.
I Servizi segreti avvertono: "Rischio infiltrati fra i profughi" - I Servizi segreti italiani avvertono: c’è il rischio che le carrette del mare portino in Sicilia anche jihadisti infiltrati. Non lanciano un allarme, ma prendono atto che i focolai di guerra nel medio Oriente, in particolare l’avanzata islamista in Iraq, Siria e Libia, possano generare iniziative nel nostro Paese,sede della cristianità e delle presidenza Ue.
Ma i segnali sulla presenza della jihad in Italia non vengono dagli infiltrati sbarcati nelle coste siciliane, ma dalle vecchie enclave dell’islamismo radicale, ubicate nel Nord Italia, come testimoniano le indagini condotte dai carabinieri del Ros a Padova e le misure eccezionale prese a Cremona.
I servizi hanno anche calcolato che sarebbero una cinquantina gli italiani che hanno sposato la fede radicale e si sono uniti ai combattenti islamisti nei vari teatri di guerra. Una cifra in linea con altri Paesi europei, ma più bassa certamente di quella britannica.
In definitiva è dal passato, nemmeno recente, che potrebbero venire problemi per la sicurezza, piuttosto che dalle carrette del mare che pure costituiscono una porta spalancata verso l’integralismo jihadista.
I fari sono puntati sulla Libia e le sue coste, dunque. L’inferno libico, un autentico enigma, non brucia gli affari, quelli dei mercanti di morte e gli altri, resi possibili dalla permanenza massiccia delle grandi e piccole aziende italiane nel paese nordafricano. In Libia sono impegnate Unicredit, la Salini, Fincantieri ed Eni, il fior fiore dell’industria e della finanza italiane. E i venti di guerra hanno spazzato via sia le grandi compagnie petrolifere multinazionali - spagnoli, britannici, americani e cinesi - e le delegazioni diplomatiche, ma non hanno spaventato gli italiani.
"E’ un fatto - scrive Gad Lerner su Repubblica - che le milizie non si limitino a combattere tra loro. Prosperano disponendo di risorse cospicue e - grazie alla dissoluzione dello Stato libico, controllano le coste su cui hanno scatenato il triste commercio degli scafisti". "Le carrette del mare - continua Lerner - nel 2014 sono quintuplicate, trasportando più di centomila persone…"
Ma i profitti dei traffici di profughi - circa cinque miliardi di euro annui - sono lontani da quelli che la Libia sarebbe in grado, come in passato, di realizzare attraverso l’estrazione del petrolio e il gas (più di quaranta miliardi di euro). La presenza di alcune centinaia di manager, tecnici, imprenditori in Libia, costituisce, probabilmente, una specie di polizza assicurativa. L’integralismo, insomma, vuole tenere un piede negli affari. Grazie agli italiani. [SiciliaInformazioni.com]