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Caro dottor D'Ambrosio...

Le lettere di Giorgio Napolitano a Loris D'Ambrosio: "Tentativi di colpire lei per colpire me"

16 ottobre 2012

"Come il procuratore di Palermo ha già dichiarato e come sanno anche tutte le autorità giudiziarie a qualsiasi titolo coinvolte nella gestione e nel coordinamento dei procedimenti sulle stragi di mafia del 1992 e 1993, non ho mai esercitato pressioni o ingerenze che anche minimamente potessero tendere a favorire il senatore Mancino o qualsiasi altri rappresentante dello Stato comunque implicato nei processi di Palermo, Caltanissetta e Firenze".
Così il consigliere giuridico del Quirinale, Loris D'Ambrosio, scriveva al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, il 18 giugno scorso, lo stesso giorno che diversi giornali avevano pubblicato, dedicandovi grande spazio e rilievo, i testi di conversazioni telefoniche con il senatore Nicola Mancino, ex ministro dell'Interno ed ex vicepresidente del Csm, intercettate nell'ambito di una indagine della Procura della Repubblica di Palermo.

Il giorno dopo il capo dello Stato scriveva a D'Ambrosio una lettera pubblicata ora per la prima volta nel volume "Sulla Giustizia", che raccoglie gli interventi del Capo dello Stato e presidente del Consiglio superiore della magistratura tra il 2006 e il 2012. "Caro dottor D'Ambrosio, l'affetto e la stima che le ho dimostrato in questi anni, sempre accresciutisi sulla base dell'esperienza del rapporto con lei, restano intangibili, neppure sfiorati dai tentativi di colpire lei per colpire me. Ce ne saranno ancora, è probabile: li fronteggeremo insieme come abbiamo fatto negli ultimi giorni. E la sua vicinanza e collaborazione resterà per me preziosa fino alla conclusione del mio mandato. Preziosa per sapienza, lealtà e generosità".
Il 26 luglio scorso D'Ambrosio, a cui Napolitano ha voluto dedicare la pubblicazione che contiene l'inedito scambio epistolare, fu colto da morte improvvisa, per arresto cardiaco. Fu lo stesso Capo dello Stato a darne l'annuncio.

"Ciò non significa che io non comprenda il suo stato d'animo e la sua indignazione (dire amarezza è poco). Le sue condotte, così come le ha ricostruite nella sua lettera - scriveva tra l'altro il Presidente della Repubblica - sono state, e non solo in questi 6 anni, ineccepibili; e assolutamente obiettiva e puntuale è la sua denuncia dei comportamenti perversi e calunniosi - funzionali a un esercizio distorto del proprio ruolo - di quanti, magistrati, giornalisti e politici, non esitano a prendere per bersaglio anche lei e me". "Non posso, però, che invitarla - scriveva ancora il Presidente della Repubblica a D'Ambrosio - a uno sforzo di rasserenamento e di ferma, distaccata predisposizione a reagire agli sviluppi della situazione. Traendo conforto anche dall'apprezzamento e dal rispetto che nutrono per lei tutti i galantuomini che operano nel mondo della giustizia o hanno comunque avuto modo di conoscerla e seguirla. Lo sforzo a cui la invito - concludeva Napolitano - non è facile; e lo so perché non solo a esemplari servitori dello Stato, ma anche a politici impegnati in attività di partito e nelle istituzioni, possono toccare amarezze e trattamenti tali da ferire nel profondo. Lo potrà rilevare leggendo qua e là la mia autobiografia politica, che le invio - pur avendone lei forse già copia - come segno di amicizia e fiducia".

L'ira di Napolitano: "Insinuati sospetti su di me" - "Una decisione obbligata". Così il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha definito l'atto con cui a fine luglio ha sollevando il conflitto di attribuzione con la Procura di Palermo davanti alla Corte Costituzionale. La decisione di ricorrere alla Consulta, ha precisato ieri Napolitano durante l'intervento all'inaugurazione dei corsi della Scuola superiore della magistratura a Scandicci (Firenze), è stata ispirata da "trasparenza e coerenza".
"Come purtroppo ricordiamo, si è tentato da qualche parte di mescolare tale iniziativa, di assoluta correttezza istituzionale - ha sottolineato il capo dello Stato - con il travagliato percorso delle indagini giudiziarie sulle ipotesi di trattativa Stato-mafia negli anni '90, insinuando nel modo più gratuito il sospetto di interferenze - smentite da tutti gli interessati - da parte della presidenza della Repubblica". "Quel tentativo, condotto attraverso i canali di un'informazione sensazionalistica e di qualche marginale settore politico, è durato poco - ha aggiunto il Capo dello Stato - ma ne è stata pesantemente investita una persona, il magistrato di straordinaria linearità e probità, Loris D'Ambrosio".

La lunga estate dei veleni sul Colle - La vicenda prende corpo all'inizio della scorsa estate, quando Il Fatto Quotidiano pubblica il primo servizio che catapulta il Colle dentro le indagini sulla presunta trattativa Stato-mafia all'inizio degli anni '90. Scatenando una durissima reazione del Quirinale, arrivato a sollevare davanti alla Corte Costituzionale un conflitto di attribuzione contro la Procura di Palermo per le decisioni da questa assunte sulle intercettazioni di conversazioni telefoniche del Capo dello Stato.
È il 16 giugno quando il quotidiano diretto da Antonio Padellaro pubblica un'inchiesta dal titolo "I misteri del Quirinale. Indagine sulla trattativa Stato-mafia" in cui, tra l'altro, si parla di una telefonata dell'ex ministro Nicola Mancino al Quirinale, confermata dal consigliere giuridico di Giorgio Napolitano Loris D'Ambrosio, che però non fornisce informazione alcuna sui contenuti di quel colloquio ("È vero, mi ha chiamato. Ma quel che ha fatto il presidente è top secret").
In quella telefonata, Mancino - scrive il Fatto - avrebbe chiesto aiuto al Quirinale dopo essersi lamentato delle indagini dei Pm di Palermo. La reazione del capo dello Stato è immediata e quasi incredula: "parlare di misteri del Quirinale è soltanto risibile" si indigna Napolitano che respinge queste "irresponsabili illazioni" sottolineando di aver agito secondo le sue "responsabilità e nei limiti delle sue prerogative".

Di fronte ad un'opinione pubblica sbigottita, è l'ex magistrato e leader dell'Idv, Antonio Di Pietro, che prende subito, e a spada tratta, la difesa delle procure coinvolte: chiede prima una Commissione d'inchiesta, arriva ad accusare il Presidente di tradimento della Costituzione e, più in là, propone al governo con un ordine del giorno presentato alla Camera, di costituirsi parte civile nel processo Stato-mafia. Passa, intanto, un mese dallo scoppio della delicatissima vicenda quando Giorgio Napolitano decide di reagire sollevando il conflitto di attribuzione nei confronti della Procura di Palermo per le decisioni che questa ha assunto sulla questione centrale della vicenda. E cioè sulle intercettazioni di alcune, quattro, conversazioni telefoniche del Capo dello Stato. Sono decisioni che il Presidente considera, anche se riferite a intercettazioni indirette, lesive di prerogative attribuitegli dalla Costituzione. Poi, qualche giorno dopo, muore improvvisamente D'Ambrosio.

Giorgio Napolitano è sconvolto, definisce "atroce" il rammarico per quella che definisce una "campagna violenta e irresponsabile di insinuazioni e di escogitazioni ingiuriose" verso il suo collaboratore. Intanto, in attesa dell'udienza di fronte ai giudici della Consulta prevista il 4 dicembre, il presidente della Repubblica torna a difendere l'operato del suo collaboratore, prematuramente scomparso forse proprio a causa dell'immensa preoccupazione per quando accaduto. Giorgio Napolitano non esita a pubblicare le lettere scambiate con D'Ambrosio nei giorni in cui scoppia il caso. Parole in cui emerge la fiducia totale riposta nei confronti del suo consigliere per gli Affari e la Giustizia: "L'affetto e la stima che le ho dimostrato in questi anni restano intangibili, neppure sfiorati dai tentativi di colpire lei per colpire me".

[Informazioni tratte da Adnkronos/Ign, ANSA, Lasiciliaweb.it]

- I pm di Palermo: "Siamo sempre stati corretti" di Salvo Palazzolo (Repubblica/Palermo)

 

 

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16 ottobre 2012
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