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Chiusa l'indagine sulla presunta trattativa tra Stato e mafia

Dodici gli indagati, tra cui gli ex ministri Mancino e Mannino e il senatore Dell'Utri

14 giugno 2012

Un atto di accusa in nove pagine con dodici indagati. La Procura di Palermo, dopo quattro anni, chiude l'indagine sulla presunta trattativa tra Stato e mafia. L'avviso di conclusione delle indagini preliminari sarà depositato oggi e nell'elenco degli indagati ce ne sono due che non avrebbero materialmente partecipato alla trattativa. Si tratta di Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza ai pm, e di Massimo Ciancimino, che risponde di concorso in associazione mafiosa e di calunnia aggravata nei confronti dell'ex capo della Polizia, Gianni De Gennaro.

In cima alla lista degli indagati cinque mafiosi: Leoluca Bagarella, Giovanni Brusca, Antonio Cinà, Totò Riina e Bernardo Provenzano. Poi uomini delle istituzioni e politici: l'ex generale Antonio Subranni, l'ex colonnello dei Ros Giuseppe De Donno, l'ex generale del Ros Mario Mori, l'ex ministro Calogero Mannino e il senatore Marcello Dell'Utri. Fuori dall'elenco Giovanni Conso e Adalberto Capriotti: l'ex ministro della Giustizia e l'ex direttore del Dap sono accusati di false informazioni al pubblico ministero, la loro posizione è stata stralciata perché il reato di cui sono accusati presuppone che sia concluso il processo principale.
Le accuse sono violenza o minaccia a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato. "Hanno agito per turbare la regolare attività dei corpi politici dello Stato - si legge nell'atto d'accusa -. Hanno agito in concorso con l'allora capo della Polizia Parisi e il vice direttore del Dap Di Maggio, deceduti”.

L'avviso di conclusione delle indagini non è stato firmato dal procuratore capo di Palermo, Francesco Messineo, che non è formalmente titolare del procedimento, e dal sostituto Paolo Guido, in disaccordo con la linea portata avanti dall'aggiunto Antonio Ingroia e dai sostituti Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Lia Sava.

LA PRESUNTA TRATTATIVA - La Procura di Palermo e la Dia ritengono di aver ricostruito i retroscena di una trattativa segreta sostanzialmente svoltasi in tre fasi.
Nell'estate 1992, dopo la strage Falcone, i carabinieri del Ros avrebbero poi tentato di fermare la strategia di morte dei corleonesi iniziando un dialogo segreto con l'ex sindaco Vito Ciancimino. In questi delicati passaggi, l'inchiesta della Procura di Palermo sulla trattativa si interseca con quella di Caltanissetta sul movente della strage Borsellino: è ormai un dato acquisito dalle inchieste che Paolo Borsellino avrebbe saputo della trattativa fra pezzi dello Stato e i vertici della mafia, avrebbe anche tentato di opporsi, e per questa ragione la sua morte sarebbe stata "accelerata", come ha spiegato il pentito Giovanni Brusca.
La Procura di Palermo crede in parte al racconto di Massimo Ciancimino a proposito degli incontri fra il generale Mori e l'ex sindaco Vito Ciancimino: sarebbero avvenuti anche prima della strage Borsellino, circostanza sempre negata dal generale Mori. La Procura è convinta pure che ai carabinieri Mori e De Donno sarebbe stato consegnato, tramite Vito Ciancimino, il papello con le richieste di Totò Riina: era il prezzo che Cosa nostra chiedeva per interrompere la stagione delle bombe. Revoca del carcere duro, revisione dei processi, annullamento dei processi più importanti già conclusi. È un altro dei punti centrali dell'inchiesta, anche questo sempre respinto dai carabinieri.

La terza fase della trattativa sarebbe iniziata dopo l'arresto di Riina, nel gennaio 1992. Secondo la Procura di Palermo, a condurla sarebbe stato Bernardo Provenzano. E dato che Ciancimino era in carcere, la trattativa sarebbe stata portata avanti da un altro colletto bianco: Marcello Dell'Utri. Scrivono i pm che Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca avrebbero "prospettato al capo del governo in carica Silvio Berlusconi, per il tramite di Vittorio Mangano e di Dell'Utri una serie di richieste finalizzate ad ottenere benefici di varia natura per gli aderenti a Cosa nostra". Sostiene Brusca che una "risposta " sarebbe poi arrivata, sempre per il tramite di Mangano, l'ex stalliere di casa Berlusconi.

LE INDAGINI SUI TRE EX MINISTRI - L'ex ministro della Giustizia Giovanni Conso, 91 anni, è stato indagato per false informazioni a pubblico ministero. Sentito dai pm sulla revoca del carcere duro a oltre 300 mafiosi, disse di "avere agito in solitudine", versione che non ha convinto i magistrati.
Oltre a Conso è indagato anche Giovanni Brusca. Il boss mafioso risponde dell'accusa di violenza o minaccia a corpo politico, amministrativo o giudiziario dello Stato.
Giovanni Conso, guardasigilli dal febbraio del 1993 ad aprile del 1994, è stato sentito più volte dai pm di Palermo che indagano sulla trattativa. Il suo nome è entrato nell'inchiesta dopo una sua audizione alla commissione Antimafia dell'11 novembre del 2010 nel corso della quale affrontò il capitolo dei 41 bis fatti scadere o non rinnovati. Il 1 novembre del 1993 non vennero rinnovati 140 decreti di carcere duro e altrettanti vennero fatti scadere tra fine novembre dello stesso anno e gennaio del 1994. "Una scelta fatta in autonomia" ha sempre ripetuto l'ex Guardasigilli, sia all'Antimafia che ai pm di Palermo. Ma per la Procura, invece, proprio l'alleggerimento del carcere duro sarebbe stato uno dei punti al centro della trattativa Stato-mafia.

Conso è il terzo ministro a entrare nell'indagine: sono stati iscritti anche l'ex ministro dell'Interno, Nicola Mancino per falsa testimonianza e Calogero Mannino per violenza o minaccia a corpo politico dello Stato. Nei loro confronti e nei confronti degli altri indagati, si attende la notifica dell'avviso di conclusione dell'indagine. Nel caso del reato di false informazioni a pm contestato a Conso, prevede il codice penale, l'inchiesta si sospende fino alla definizione in primo grado del procedimento principale: in questo caso quello sulla trattativa.
Per quanto riguarda Mancino, l'ex ministro era stato ascoltato lo scorso febbraio come teste al processo Mori, e al termine dell'udienza i pm Antonio Ingroia e Nino Di Matteo avevano detto che "qualche uomo delle istituzioni mente" (LEGGI). I pm, in sostanza, ritengono che Mancino insediatosi al Viminale il primo luglio 1992 sapesse della trattativa che prevedeva di cedere al ricatto dei boss in cambio della rinuncia all'aggressione terroristica e ai progetti di uccisione di altri uomini politici. E che ora l'ex presidente del Senato ed ex vicepresidente del Csm neghi l'evidenza per coprire "responsabilità proprie e di altri".

Nell'avviso di garanzia ricevuto da Mannino, ex ministro democristiano, oggi deputato, si parla genericamente di "pressioni" che il politico siciliano avrebbe esercitato su "appartenenti alle istituzioni", sulla "tematica del 41 bis", il carcere duro che i capimafia cercavano di far revocare (LEGGI).

DELL'UTRI E LE RICHIESTE DI COSA NOSTRA - Vittima consapevole, rappresentante di un governo sotto scacco, ma che mai avrebbe denunciato quanto sapeva.
E' questa la figura di Silvio Berlusconi, quale emerge dall'avviso di conclusione delle indagini sulla trattativa fra Stato e mafia. Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca, attraverso Vittorio Mangano, l'ex stalliere di Arcore, e di Marcello Dell'Utri, avrebbero prospettato al neo premier "una serie di richieste finalizzate a ottenere benefici di varia natura, tra l'altro concernenti la legislazione processuale e penale, in materia di contrasto alla criminalita' organizzata, l'esito di importanti vicende processuali e il trattamento penitenziario degli associati in stato di detenzione".

Questi benefici sarebbero stati "la condizione ineludibile per porre fine all'attacco frontale" allo Stato, iniziato con l'omicidio Lima e "proseguito con le stragi del '92 in Sicilia e del '93 a Roma, Firenze e Milano". Un disegno unico, portato avanti da Dell'Utri, indicato come il sostituto di Lima nella qualità di "interlocutore degli esponenti di Cosa nostra" per far conseguire loro i benefici cui miravano.
Dopo gli arresti di Vito Ciancimino e Totò Riina, Dell'Utri avrebbe agevolato "il progredire della trattativa Stato-mafia, rafforzando i responsabili mafiosi della trattativa nel loro proposito criminoso di rinnovare la minaccia di prosecuzione della strategia stragista". Non solo. Il manager di Pubblitalia avrebbe anche favorito "la ricezione di tale minaccia presso alcuni destinatari della stessa e in particolare, da ultimo, favorendone la ricezione da Berlusconi Silvio, dopo il suo insediamento come capo del Governo".
La contestazione viene mossa "in Palermo, Roma e altrove a partire dal 1992". Non c'è, come normalmente avviene in atti del genere, un termine finale: come se la trattativa non avesse mai avuto conclusione.
Alla ricostruzione dei pm osta però la valutazione della Cassazione, che con la sentenza di annullamento con rinvio della condanna di Dell'Utri (imputato di concorso in associazione mafiosa, in un altro processo), ha stabilito che nei fatti contestati dal '92 in poi all'imputato non emergono condotte penalmente rilevanti. Dovesse esserci un processo pure per la trattativa, contro il senatore del Pdl, scatterebbe l'eccezione del ne bis in idem, nessuno puo' essere giudicato due volte per lo stesso fatto.

[Informazioni tratte da Adnkronos/Ign, ANSA, Lasiciliaweb.it, GdS.it, Repubblica/Palermo.it]

 

 

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14 giugno 2012
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