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Con la coda tra le gambe

Il giorno dell'arresto di Totò Riina venne salutato come un giorno storico, ma quella mancata perquisizione al suo covo...

21 novembre 2005

Il 15 gennaio 1993 venne salutato dalla stragrande maggioranza degli italiani come un grande giorno, punto di svolta epocale nella lotta contro la mafia. Quel venerdì di dodici anni fa, in una trafficata via di Palermo veniva arrestato Totò Riina, capo indiscusso di Cosa Nostra, reggente assoluto del clan dei ''Corleonesi''. A poco tempo dalla terribile estate delle stragi dei giudici  Falcone e Borsellino, l'arresto del temibile boss diede incredibile vigore al moto di sdegno e alla forza di tutti i siciliani nei confronti della mostruosa ''piovra'', e davanti agli occhi della società civile iniziò a prospettarsi un futuro fino ad allora inimmaginabile.
Venimmo però a scoprire, troppo tardi, che quella storica operazione non era stata portata, nella sua totalità, a termine.
La mancata perquisizione del covo dove Riina si nascondeva da circa 25 anni, ha trasformato un evento vittorioso per l'Italia in uno di quei tanti misteri italiani che fanno montare la rabbia e la vergogna, uno di quei muri di gomma per il quale si può lasciare la presa e arrendersi, con la coda fra le gambe come cani bastonati.

C'è un processo in corso su quella inspiegabile mancata perquisizione, un processo che dovrà giudicare due persone che alla cattura di Riina vennero immediatamente incoronati eroi: il prefetto Mario Mori, direttore del Sisde e all'epoca comandante del Ros dei carabinieri, e il tenente colonnello Sergio De Caprio, il famoso ''Capitano Ultimo'' che catturò Riina. Nei loro confronti l'imputazione è ''favoreggiamento di Cosa Nostra''.
Fu Mario Mori a ordinare al capitano Ultimo e agli altri carabinieri dei suoi reparti speciali di abbandonare ''l'osservazione'' della casa di Totò Riina.
Il dibattimento è in corso ormai da qualche mese. Tante sono e sono state le polemiche, tantissime le manovre intorno a un processo che al di là del fatto in sé potrebbe svelare le ''cose di Cosa Nostra'' che segnano il passaggio tra le stragi dell'estate del 1992 e quell'"invisibilità" mafiosa conquistata con patti e trattative più o meno confessabili.
E così tutto quello che sembrava semplice si è complicato, tutto quello che era stato all'inizio segnalato come ''un disguido'' è diventato un affaire che fa tremare un pezzo di antimafia che ha sempre vissuto di una propria ''autonomia''.

Il processo contro Mario Mori e il capitano Ultimo ha visto l'ultimo colpo di scena venerdì scorso (18 novembre 2005) con la deposizione di una donna, considerata ''il primo boss in gonnella'', affiliata a quei clan vicini ai Corleonesi dello "zù Totò", lo zoccolo duro della mafia siciliana, quelli che vorrebbero ancora sparare e comandare. Teste al dibattimento è stata infatti Giusy Vitale, sorella di Vito e Leonardo Vitale, i fratelli ''fardazza'' boss di Partinico.
Nella sua deposizione Giusy Vitale ha ricordato: ''Seppi dell'arresto di Riina da mio fratello Vito che faceva la latitanza a casa mia. Mi disse che lì dentro c'erano documenti che, se trovati, avrebbero fatto saltare in aria lo Stato''. ''Seguivamo il telegiornale e sentimmo che non avevano fatto alcuna perquisizione dopo il suo arresto. La cosa mi stupì''. E ha poi aggiunto: ''Chiesi a Vito e lui mi rispose: 'Tutto è possibile' e ''le vie del signore sono infinite''.
Il fratello Vito era considerato allora uno ''nel cuore di Riina'', uno fidatissimo.
 
Ma ricordiamo ciò che accadde quel 15 gennaio del 1993 a Palermo: quella mattina, Riina venne intercettato verso le 8 e 15 su una strada trafficatissima di Palermo. Il suo covo, in via Bernini, la strada della borgata di Cruillas, dove il boss si nascondeva con sua moglie Ninetta e i suoi quattro figli, quelli del Ros lo controllarono solo per qualche ora (ma al procuratore Caselli poi dissero che lo avevano tenuto ''sotto osservazione'' per più di due settimane). Una squadra di mafiosi intanto - la villa era ormai senza più vigilanza dei carabinieri - entrò nella villa e ripulì ogni traccia.

Ecco che cosa ha detto, sempre venerdì scorso, in aula Gioacchino La Barbera, uno degli assassini di Capaci: ''Hanno cancellato tutto con l'aspirapolvere, portato via vestiti, documenti e le cose più importanti. E poi tinto le pareti e smurata la cassaforte. La portarono via e rimurarono il buco perché non si vedesse più nulla''.
Ed ecco che cosa ha ripetuto - l'aveva già anticipato in corte di assise a Firenze, nel processo sulle stragi italiane, le bombe mafiose del 1993 - Giovanni Brusca: ''In una cassaforte Riina teneva soldi, documenti, appunti, conteggi e atti notarili. Non so il contenuto specifico, ma so che in quel momento si parlava sempre di appalti e traffici di droga''.
Dopo ''l'operazione dei commandos di Corleone'' un altro mafioso, Giovanni Sansone, si occupò di mischiare ancora di più le carte.
Ha ricordato ancora il pentito La Barbera: ''Fu deciso di portare via i parenti di Riina da quella casa e poi di eliminare tutto ciò che poteva segnalare la presenza sul posto dello zio Totò: Sansone incaricò alcuni muratori di cambiare la conformazione della villa, furono abbattuti alcuni muri e ne vennero tirati su di nuovi''. E ancora Brusca: ''Bisognava togliere qualsiasi traccia che poteva ricondurre a lui''.

In quei giorni, mentre il cantiere dei mafiosi alacremente andava avanti nella ''ristrutturazione'' del covo di Riina, il colonnello Mario Mori rassicurava i magistrati di Palermo, raccontava loro che ''il covo era vigilato''.
Così è finito sotto processo con il capitano Ultimo.

F.M.

- ''L'Isola dei Mafiosi'' di Marco Travaglio (l'Unità)

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21 novembre 2005
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