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Conflitto di attribuzione

Il Capo dello Stato contro la Procura di Palermo. "Ma le regole sono state rispettate"

17 luglio 2012

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha deciso di sollevare un conflitto di attribuzione nei confronti della procura di Palermo per le decisioni che questa ha preso su intercettazioni di conversazioni telefoniche del presidente in merito all'inchiesta sulla trattativa Stato-mafia.
"Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - si legge in una nota pubblicata ieri nel sito del Quirinale - ha affidato all'avvocato generale dello Stato l'incarico di rappresentare la presidenza della Repubblica nel giudizio per conflitto di attribuzione da sollevare dinanzi alla Corte costituzionale nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo per le decisioni che questa ha assunto su intercettazioni di conversazioni telefoniche del capo dello Stato; decisioni che il presidente ha considerato, anche se riferite a intercettazioni indirette, lesive di prerogative attribuitegli dalla Costituzione".
"Alla determinazione di sollevare il confitto - prosegue la nota - il presidente Napolitano è pervenuto ritenendo 'dovere del Presidente della Repubblica', secondo l'insegnamento di Luigi Einaudi, evitare si pongano, nel suo silenzio o nella inammissibile sua ignoranza dell'occorso, precedenti, grazie ai quali accada o sembri accadere che egli non trasmetta al suo successore immuni da qualsiasi incrinatura le facoltà che la Costituzione gli attribuisce".

Secondo quanto si legge nel decreto del capo dello Stato, anziché chiedere immediatamente al gip la distruzione delle intercettazioni di Napolitano, i pm - illegittimanente, secondo il capo dello Stato - intendono sottoporle ai difensori "ai fini del loro ascolto", e, dopo il contraddittorio, rimetterle alla valutazione del giudice.

"La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo - è scritto nel decreto - dopo aver preso cognizione delle conversazioni, le ha preliminarmente valutate sotto il profilo della rilevanza e intende ora mantenerle agli atti del procedimento perché esse siano dapprima sottoposte ai difensori delle parti ai fini del loro ascolto e successivamente, nel contraddittorio tra le parti stesse, sottoposte all'esame del giudice ai fini della loro acquisizione ove non manifestamente irrilevanti".
Per l'esattezza, le intercettazioni cui partecipa il presidente della Repubblica, anche se indirette, "non possono essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte", si legge nel decreto, che cita l'art. 90 della Costituzione e la legge 5 giugno 1989, n. 219. Nel decreto è scritto che "salvi i casi di alto tradimento o attentato alla Costituzione e secondo il regime previsto dalle norme che disciplinano il procedimento di accusa, le intercettazioni di conversazioni cui partecipa il Presidente della Repubblica, ancorché indirette o occasionali, sono da considerarsi assolutamente vietate e non possono quindi essere in alcun modo valutate, utilizzate e trascritte e di esse il pubblico ministero deve immediatamente chiedere al giudice la distruzione".

All'uscita dell'ennesimo vertice in Procura tra i magistrati che indagano sulla trattativa tra mafia e Stato nel periodo delle stragi, i pm - che si dicono sereni - tengono nascosta la tensione dietro ampi sorrisi. A pochi minuti dalla nota del presidente della Repubblica, l'aggiunto Antonino Ingroia e i sostituti Nino Di Matteo, Paolo Guido, Lia Sava e Francesco Del Bene si ritrovano davanti al procuratore Francesco Messineo.
Un'ora di colloquio serrato, poco prima dell'ora di pranzo, per capire come muoversi su quelle intercettazioni tra il Capo dello Stato e l'ex ministro Nicola Mancino finite nel secondo filone dell'inchiesta e al centro di uno scontro istituzionale senza precedenti. Conversazioni "non rilevanti" ma tuttavia nelle mani della Procura che ne chiederà, assicurano, la distruzione.

Per il Quirinale, però, già il fatto di averle valutate va contro le norme costituzionali. A mettere in moto Napolitano erano state le dichiarazioni del pm Di Matteo che aveva di fatto ammesso la presenza di intercettazioni indirette nei confronti del Capo dello Stato. "Quelle che dovranno essere distrutte con l'instaurazione di un processo davanti al gip - ha spiegato il magistrato - saranno distrutte, quelle che riguardano altri fatti da sviluppare saranno utilizzate".
Da qui l'allarme del Quirinale e la richiesta di chiarimenti da parte dell'Avvocatura. Le spiegazioni fornite da Messineo e da Di Matteo non hanno però convinto il Quirinale che si è rivolta alla Corte Costituzionale.
Il procuratore, che non ha firmato l'atto di chiusura delle indagini, resta "sereno", ma si capisce che il clima dentro la Procura è rovente come l'estate palermitana. "Siamo sereni. Tutte le norme messe a tutela del presidente della Repubblica riguardo a una attività diretta a limitare le sue prerogative sono state rispettate", ha replicato Messineo. "Ci troviamo in presenza di un'intercettazione occasionale, di un fatto imprevedibile che a mio parere sfugge alla normativa in esame. Non c'è stato alcun controllo sul Presidente della Repubblica", ha infine sottolineato il procuratore Messineo.
"Se l'intercettazione non è rilevante per la persona che è sottoposta a immunità e lo è per un indagato qualsiasi, può essere utilizzata", ha affermato il procuratore aggiunto di Palermo, Antonio Ingroia. "Secondo la nostra posizione - ha aggiunto Ingroia -, per altro confortata da illustri studiosi, se l'intercettazione è rilevante nei confronti della persona intercettata, allora è legittima. Non esistono intercettazioni rilevanti nei confronti di persone coperte da immunità. E per quelle non coperte da immunità non c'e bisogno di alcuna autorizzazione a procedere".

Ingroia ha poi ricordato un precedente che ricorda il conflitto di attribuzione sollevato da Giorgio Napolitano nei confronti della Procura di Palermo. Infatti, già nel 1993 un presidente della Repubblica, in quel caso Oscar Luigi Scalfaro, fu intercettato. Ne scaturì una serie di polemiche e una discussione in Senato in cui l'allora ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick, dovette rispondere all'interpellanza presentata dal senatore a vita Francesco Cossiga.
"Non è vero che è la prima volta che capita - ha ribadito -. L'episodio in cui fu coinvolto Scalfaro è molto simile". L'intercettazione di una conversazione telefonica di Scalfaro, venne alla ribalta il 27 febbraio 1997, quando 'Il Giornale' pubblicò il testo di quel colloquio (registrato dalla Guardia di finanza il 12 novembre 1993 tra il presidente e l'allora amministratore delegato della banca popolare di Novara, Carlo Piantanida), depositato tra gli atti del procedimento per la bancarotta della Sasea, a Milano.

Immediata fu la replica del procuratore Francesco Saverio Borrelli: "Le parole pronunziate sono del tutto prive di qualsiasi rilevanza penale, è spiacevole che il nome del Presidente della Repubblica compaia in una intercettazione, peraltro del tutto legittima, fatta su altra utenza".
"Nella vicenda delle intercettazioni delle conversazioni telefoniche di Scalfaro in seguito al fallimento della Sasea - disse Flick al Senato -, i magistrati non hanno violato alcuna norma, anche se la procedura seguita non appare in linea con i principi della Costituzione a tutela del Presidente della Repubblica".
Flick non ravvisò nella condotta dei magistrati "aspetti di macroscopica inosservanza delle disposizioni di legge o di loro abnorme interpretazione". Sottolineò però che esiste nel nostro ordinamento un "assoluto divieto di intercettazione telefonica" nei confronti del presidente della Repubblica a tutela delle sue prerogative. Tuttavia questo principio "è frutto di un'interpretazione sistematica e non trova riferimenti letterali nella normativa codicistica".

Sulla delicata vicenda si è subito espresso il guardasigilli Paola Severino che, da Mosca per una visita ufficiale, ha difeso la decisione del Quirinale: "Il capo dello Stato ha utilizzato il mezzo più corretto". Il ministro ha osservato che anche nella citazione di Einaudi da parte di Napolitano "leggo chiaramente lo scopo dell'attivazione di questa procedura, non certo quello di sollevare conflitti politici o polveroni. Il capo dello Stato ha utilizzato il mezzo più corretto tra quelli previsti dal nostro ordinamento per risolvere i problemi interpretativi della legge sulle intercettazioni quando queste abbiano ad oggetto conversazioni telefoniche che hanno come interlocutore anche il capo dello Stato", ha spiegato il guardasigilli a margine di una conferenza stampa con il ministro della Giustizia russo Alexandr Konovalov.
"Quello del conflitto di attribuzioni è un istituto conosciuto sul piano teorico e anche applicato almeno in un altro caso, quando il presidente Ciampi lo sollevò per l'interpretazione normativa in maniera di grazia", ha osservato. "Se gli istituti non vengono ben spiegati si pensa subito ad aspetti di carattere politico, di contrasti che invece in questo caso si è voluto risolvere preventivamente", ha aggiunto Severino.

Sul piano politico, il ministro della Giustizia ha voluto precisare che "l'intervento del capo dello Stato non è stato un intervento a tutela di interessi personali, questo Napolitano l'ha spiegato molto bene citando Einaudi. E' un desiderio di correttezza per evitare strumentalizzazioni di tipo politico", ha osservato.
Rispondendo a una domanda sulla posizione della Procura siciliana, il guardasigilli ha detto di non sapere "assolutamente se la Procura di Palermo abbia cambiato o meno idea, quale fosse la sua idea originaria e quale è quella attuale: mi pare che il problema interpretativo sia tutto qui, ossia se l'intercettazione del capo dello Stato debba essere assoggettata a un immediato procedimento di eliminazione oppure se debba essere valutata prima di essere filtrata in un'udienza apposita nella quale si deve decidere sull'eliminazione delle intercettazioni stesse".

[Informazioni tratte da Adnkronos/Ign, ANSA, Reuters.it, Lasiciliaweb.it]

- Il testo del decreto del capo dello Stato

 

 

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17 luglio 2012
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