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Dal commercio all'arte: le illuminazioni di Frank Zappa

25 febbraio 2006

Di Frank Zappa (1940-1993) si usa dire, ed è fin troppo facile, che sia stato un genio, sicuramente uno fra i grandissimi protagonisti della musica del Novecento. E' affermazione facile quanto complessa, perché in un mondo in cui per lunghissimo tempo l'accademia ha rifiutato ogni contatto con ciò che viveva al di fuori di essa, Zappa s'è affermato come sperimentatore estremo, proveniente da quella vasta e complessa cultura che è quella americana e che la stessa accademia europea, per quanto vetusta, continua ad osteggiare. Il musicista ha dovuto così superare più ostacoli del solito: come artista di provenienza extra-accademica, come musicista americano, come innovatore (peraltro estremamente empirico, come nella tradizione, tutta americana, di autori quali Ives, Cowell, Partch, Cage, Nancarrow).
Zappa ci ha lasciati da oltre dieci anni e, curiosamente (o forse no), le sue intuizioni sembrano affascinare assai più il mondo accademico che non quello della musica popolare: un itinerario, in realtà, piuttosto logico, che il compositore e chitarrista americano ha, sin dai suoi esordi, travalicato i confini del rock e del pop, per creare un'opera che ancora oggi continua a mantenere una straordinaria vitalità e un'affascinante modernità, anche quando privata di quelle illuminazioni di cui Zappa era generosissimo in scena. Diciamo pure che, attualmente, la musica e la figura di questo artista fuori della norma sopravvivono e si affermano nonostante i grandi mezzi di comunicazione di massa si soffermino ben poco su di esse, data la loro difficile categorizzazione. A oltre dieci anni dalla sua scomparsa, l'opera di Zappa continua a sfuggire ad ogni tentativo di etichettatura, proteiforme e complessa qual'è. D'altronde, lo stesso autore, a chi gli chiedeva cosa pensasse del suo rapporto con altri compositori, rispondeva: ''Well, yes: basically that I don't belong'' (Don Menn, ''The Mother of All Interviews'', in Zappa! tribute issue, Keyboard e Guitar Player, 1992), un sentimento che, in definitiva, lo accomunava ad altri ''inclassificabili'' del XX secolo, come Stravinskij e Varèse, autori amatissimi da Zappa (che pure prediligeva un architetto della serialità come Webern). Come tali ''inclassificabili'', l'autore americano ha subito una sorta di non dichiarato ostracismo da parte della critica musicale più istituzionale, che oltretutto, come è tradizione, non amava la continua promiscuità musicale zappiana, il suo gusto per l'unione costante e ironica fra sacro e blasfemo, fra prosaico e complesso, fra dramma, farsa, tragedia e commedia (un approccio, peraltro, che anche un altro maverick della musica accademica, Mauricio Kagel, ha praticato di frequente).

A chi gli nominava l'aspetto più emotivo e sentimentale di certi suoi lavori come ''Cruising with Ruben and the Jets'', Zappa rispondeva assai significativamente: ''Well, I don't know whether doing emotional music is a mark of excellence. That's been one of my downfalls with rock critics, 'cause they all seem to have this feeling that the more emotional it is, the better it is. And that's not my aesthetic at all. A little of each, you know? I like skill in music''. Si paragonava così allo Stravinskij del periodo neoclassico: ''If he could take the forms and clichés of the classical era and pervert them, why not do the same with the rules and regulations that applied to doo-wop in the fifties?'' (Kurt Loder, ''Interview with Frank Zappa'', in Rolling Stone, 1988): la tendenza della sua arte a (di)mostrare che il Re era ed è perennemente nudo la rendeva ed a tutt'oggi la rende fortemente urticante per coloro che amano della Cultura e dell'Intrattenimento solo ciò che può essere reso innocuo.
Basati su di una trasversalità stilistica a dir poco audace, molti fra i lavori più significativi di Zappa accomunano materiali fondanti di una (re)interpretazione del rock, così come ampli frammenti tratti da una cultura accademica che altrettanto il compositore stravolge e piega ai propri fini espressivi, sottolineati da un abilissimo artigianato che, pur apparentemente sbilenco e sardonico, ottiene miracoli di equilibrio lessicale, in perenne bilico su di una corda quanto denso e concreto. Autentico innovatore americano, poco attratto dalle disquisizioni teoriche ma dalla concretezza della realtà e delle sue infinite possibilità, Zappa riusciva a prendere in contropiede qualsiasi ambiente musicale, che di rado era pronto ad accettarne la voluta ''alterità'', la propositale ''estraneità'' a tutto ciò che vi poteva essere di consolidato, abitudinario, tradizionale, precostituito. In realtà, se non in determinate apparenze formali, l'opera zappiana non va divisa in due tronconi: uno accademico e uno più orientato verso la musica popolare. Ambedue fanno parte di un'unica filosofia operativa, di un'unica, complessa e variegata estetica, di un unico, formidabile e articolato pensiero musicale, che lo stesso autore (Frank Zappa, con Peter Occhiogrosso, The Real Frank Zappa Book, Picador, Londra 1990, p. 139) definiva Project/Object: ''Project/Object is a term I have used to describe the overall concept of my work in various mediums. Each project (in whatever realm), or interview connected to it, is part of a larger object, for which there is no 'technical name' ''. Tale definizione serviva a Zappa, peraltro, per contenere in qualche modo, in una plausibile definizione strutturale, ciò che non era definibile in alcun modo tradizionale: un unico linguaggio in cui erano presenti molteplici linguaggi, un'unica forma che conteneva e si suddivideva in molteplici altre forme, un accumulo di pagine volutamente incomplete, straordinaria teoria continua di innumerevoli, forse infiniti work in progress cui l'autore poteva far ritorno in qualsiasi momento per riprenderli, arricchirli, ridurli, destrutturarli, farne tutt'altro senza mai perdere in logica, senza mai rinunciare a quella che è un'unitarietà, un'omogeneità di fondo, sempre avvertibile e presente al di là delle apparenze.

Prima e più di tutto, Frank Zappa era ed è stato un compositore, nel senso più puro del termine. Il fatto che pubblicamente egli fosse più conosciuto come un inventivo chitarrista in un ambito popolare non inficia tale indiscutibile fatto, di cui l'autore era ben conscio, come dimostrano alcune sue affermazioni: ''I'm a composer and my instrument is the guitar. If you like the composition, fine... (...) the notes that I play during the solo,I conceive it as a composition that's happening instantly at the time that it's''. (Frank Zappa, ''The Frank Zappa Picture Disk Interview'', 1984); ''but I approach it more as a composer who happens to be able to operate an instrument called a guitar, rather than ''Frank Zappa, Rock and Roll Guitar Hero'' (Steve Rosen, 'One Size Fits All', Guitar Player, Gennaio 1977). Peraltro, da autodidatta, Zappa tendeva ad analizzare e descrivere le proprie composizioni in termini chitarristici, pur essendo conscio delle discrasie che doveva affrontare nel momento in cui le proprie composizioni assumevano una veste orchestrale ben lontana dalla pratica e dalla tecnica del suo strumento abituale. Altresì non va dimenticato che è proprio negli assoli di chitarra che l'autore spesso rivela le sue più interessanti idee: non si tratta perciò di valutare il maggiore o minore virtuosismo del musicista, quanto la ricchezza di materiali che egli espone e che spesso sono inseriti (scritti o meno), con non casuale atto eversivo, all'interno di materiali apparentemente innocui o che sembrano limitarsi a sovvertire certe usuali forme della canzone popolare, specie quella derivata dai song americani degli anni Cinquanta, all'alba del doo-wop e del rock'n'roll. Ogni assolo di Zappa (che era strumentista peculiare e assai abile, pur senza allinearsi al virtuosismo più intricato, di regola affidato a solisti come Steve Vai e Mike Keneally) contiene i germi (lo stesso autore li definiva harmonic aromas o harmonic climates in Frank Zappa, ''The Frank Zappa Picture Disk Interview'', 1984, ed esibiva nei suoi assoli una costante alternanza fra consonanza e dissonanza) di ulteriori creazioni al di là di quella all'interno della quale l'assolo si inserisce. Sembra perciò suggerire una possibilità ulteriore di sviluppi che, in un certo senso, rende impossibile testimoniare con esattezza l'esatto corpus creativo del compositore, se non immaginandoselo come un mosso gioco di specchi replicato all'infinito (un atteggiamento, questa polifonia delle polifonie, che deve avere affascinato Pierre Boulez, fra i primi interpreti accademici ad avvicinarsi, per quanto imperfettamente, al mondo zappiano). In tal modo il musicista (che possedeva una spiccata creatività melodica nonché una percezione dell'armonia certamente al di fuori degli usuali canoni ed in cui il fascino della politonalità e del cromatismo esercita un ruolo non indifferente) si distacca pressoché interamente dal mondo del rock e, pur mantenendo intatta una personalità inconfondibilmente contraddistintiva, agisce allo stesso modo di un compositore tout court, entrando a far parte di quell'empireo di impossibili alchimisti sonori americani come Ives o Partch.

Data la sua enorme prolificità, dati i suoi tentativi di esprimersi in ogni possibile forma di linguaggio musicale e la trasversalità del suo approccio, quella di Zappa potrebbe apparire un'arte di eccessi, in qualche modo autoreferenziale, presa dall'obbedienza a se stessa, preda di una bulimia creativa che fa uso di linguaggi alti e bassi al contempo, di stili e forme fra di loro conflittuali, di materiali di ogni genere, di ironia e dramma. In effetti, le eterogenee creazioni di Zappa non conoscono altre regole e altra epoca che quelle dettate dall'autore. Ma così, d'altronde, faceva Ives, così si sono comportati tradizionalmente i grandi scultori di suono americani: ciò vale per Ives, ma anche per Revueltas, ad esempio. Può apparire di matrice ivesiana quel procedimento che Zappa definiva di xenocronia (e che è già ben chiaro in Freak Out), cioè l'arte di connettere oggetti musicali apparentemente non correlati fra di loro, nonché peculiarità realizzate nel corso di esecuzioni dal vivo e poi adeguatamente sincronizzate nella produzione in studio di incisione. Questa prassi esecutiva tipica di molti generi popular vive dunque la propria realtà nel concerto di fronte al pubblico, oppure in studio e approda infine alla registrazione che costituisce la realizzazione compiuta dell'opera. Sempre più spesso, di pari passo con il potenziarsi e il perfezionarsi della tecnologia della post-produzione, la registrazione posta in commercio non corrisponde a nessuna esecuzione effettivamente avvenuta, bensì rappresenta un mosaico più o meno abile e complesso ricavato da numerose esecuzioni dello stesso brano. Ciò accade, ad esempio, per buona parte degli ultimi lavori dal vivo pubblicati da Zappa. E ciò rappresenta un ribaltamento rispetto alle estetiche musicali tradizionali e storiche europee: un ribaltamento che era già stato annunciato, ad esempio, dal rapporto ''discografico'' esistente fra il jazz e l'arte della performance: l'identità di un lavoro si misura dal vivo e nella eventuale registrazione dello specifico evento. La tradizione orale subentra sotto nuove vesti alla tradizione scritta o, almeno, a parte di essa e la pagina scritta non è più autorevole e definitiva, perché assume le vesti di una traccia, di un canovaccio cui apportare costanti e magari estemporanee migliorie, riconducendo la prassi esecutiva ed interpretativa all’improvvisazione, in un riallaccio non solo a tante aree della tradizione americana ma, altresì a molteplici tradizioni extra-europee. Ciò, d’altronde, implica anche il mutamento definitivo del ruolo del compositore, che può agire in qualsiasi contesto gli aggradi, abbattendo così i confini fra generi, fra linguaggi, fra tradizioni: la tradizione accademica europea viene dunque a perdere quella centralità mantenuta per secoli e che già il jazz aveva cominciato a erodere.
Zappa coglie e rappresenta nella più estrema chiarezza il definitivo affermarsi di una tendenza centrifuga sviluppatasi lungo tutto l'arco del Novecento e che manifestamente combatte anche la routine accademica, l'ossessione della pagina scritta (che nell'opera di Zappa ha un ruolo di chiosa, di semplificazione di un qualcosa che, invece, può, spesso deve e sa vivere proprio al di là e al di fuori dello scritto), l’indifferenza alla perfettibilità di un'esecuzione di fronte al pedissequo prostrarsi verso la partitura, reputata la più alta testimonianza di un compositore. E nell'ironia con cui Zappa opera v'è quella rivalutazione dell’intrattenimento, dell'entertainment come fatto culturale alto e tutt'altro che plebeo, come operazione che può attuarsi assai seriamente e con risultati estremamente seri.
Come altri maestri della tradizione culturale americana, Zappa rivoluziona i materiali usuali della propria tradizione e, allo stesso tempo, li rende sempre più autonomi e originali, radicalmente liberi, ad esempio, delle molteplici influenze europee perdurate per secoli. Nella volontà perenne di trascendere i propri limiti (come d'altronde evidenziano i gesti platealmente e teatralmente irriverenti adottati da molti dei versi dei suoi song), l'arte di Zappa si presenta come alfiere di un massimalismo che dell'eterogeneità e della crescente complessità fa una questione di principio.

Gianni M. Gualberto

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25 febbraio 2006
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