Debutto in Tribunale
Bernardo Provenzano in videoconferenza al processo che lo vede imputato per una cinquantina di omicidi
Doppio debutto ieri per il "boss dei boss" Bernardo Provenzano. Un "debutto" in video, ma principalmente un "debutto" in un tribunale, davanti ai giudici per assistere al processo che lo vede “protagonista” per associazione mafiosa e per una lunga serie di omicidi.
Provenzano è comparso ieri in video conferenza, collegato dal carcere di Terni, al processo in corso a Palermo all'intera "cupola" di Cosa Nostra.
L'ex superlatitante, che ha chiesto di non essere ripreso da fotografi e teleoperatori, è apparso calmo, seduto davanti a un tavolino con sopra una serie di atti processuali e ha comunicato col suo avvocato via telefono.
Provenzano, che si mostrava per la prima volta in pubblico dopo il suo arresto dell'11 aprile scorso, è apparso in video insieme a Totò Riina, collegato dal carcere di Milano, che dopo mezzora però ha chiuso il collegamento.
Fra gli omicidi per cui si celebra il processo c'è anche quello dell'imprenditore siciliano Libero Grassi, ucciso il 27 agosto del 1991 per essersi rifiutato di pagare il pizzo.
Provenzano, ha ascoltato attento con le braccia conserte. A tratti i suoi occhi si sono posati sopra le carte posate di fronte.
La vedova Grassi, Pina Maisano, e suo figlio Davide, presenti al processo, lo hanno guardato attenti: "E' una gran bella giornata per la giustizia", ha detto Pina Maisano. "Anche se non vorrei che il collegamento con Provenzano distolga l'attenzione dal processo".
Nell'aula del tribunale di Palermo era presente anche il legale di difesa Franco Marasà. Con lui, Provenzano ha parlato a lungo attraverso il telefono: "La presenza del mio assistito - ha spiegato l'avvocato - è una scelta personale. Processualmente è opportuno per lui che si presenti in aula per ascoltare quello che succede".
Il processo, denominato "Agate più 32" dal nome di un imputato e dal numero degli inquisiti, riguarda dieci anni di mafia e una cinquantina di omicidi: dall'assassinio del boss Stefano Bontade il 23 aprile 1981 a quello dell'imprenditore antiracket Libero Grassi. Con Provenzano sono imputate altre 46 persone. Inizialmente il processo aveva 59 imputati, ma il numero si è ridotto sia per i decessi intervenuti nel frattempo (il giudizio di primo grado è durato dieci anni), sia per motivi tecnici legati a singole posizioni processuali.
L'ex latitante è già stato condannato in contumacia all'ergastolo per una serie di omicidi, fra i quali gli attentati mortali ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel 1992.
Provenzano non ha replicato né aggiunto nulla sul processo ma una cosa ha tenuto a precisare l'avvocato Marasà: "Il mio assistito mi ha detto di riferire che è attentamente curato e osservato dal presidio ospedaliero del carcere di Terni". Il legale si riferisce alle dichiarazione di un presunto parente del boss che dagli Stati Uniti, nei giorni scorsi, aveva sollecitato un intervento della Croce Rossa per verificare che il capomafia ricevesse assistenza medica adeguata. "Provenzano - ha detto il legale - non capisce l'interessamento di questa persona, sedicente parente. In carcere si sta predispondendo un piano idoneo a definire le cure da somministrargli e si ritiene soddisfatto della situazione".
Il 24 aprile scorso con una mail spedita da San Josè, in California, una persona che si firma Francesco Provenzano ha spiegato i motivi del suo appello alla Croce Rossa: “Sono preoccupato per la sorte del mio familiare perché ha 73 anni ed è gravemente malato. Ho visto in televisione le immagini del suo arresto e ho paura che possa morire durante il processo. Io lo amo e per lui desidero il meglio”.
I vertici della Cri si sono posti il problema che si tratti di un mitomane, ma poi hanno deciso di dare comunque seguito alla richiesta. “Perché - come ha chiarito il presidente della Cri, Massimo Barra - non si tratta di una procedura speciale, ma di un'attività che la nostra organizzazione svolge in ogni parte del mondo”.
Dall'America il presunto cugino, che ha spiegato di essere cieco, pur avendo detto di aver visto in televisione l'arresto di Provenzano, si è detto “angosciato per la sua sorte”. Nessuno è stato in grado di affermare che si tratti davvero di un parente del boss. Negli elenchi telefonici di San Josè non esiste nessuno con questo nome e la società di cui sostiene essere amministratore delegato non risulta registrata nelle liste ufficiali. L'uomo ha usato un indirizzo mail intestato “corp to corp” e a chi ne fa richiesta spedisce una sua foto da Corleone “dove sono stato l'estate scorsa”. Ha poi raccontato di aver lasciato la Sicilia da bambino per trasferirsi negli Stati Uniti e di non aver mai avuto contatti con la famiglia del cugino “perché nessuno di loro parla l'inglese e io non so l'italiano”. Disarmante è stata la risposta quando gli si è chiesto se almeno sapeva che il cugino è il capo della mafia: “Così dice la gente,ma io non conosco bene la sua situazione. Ho saputo dalla televisione come è stato trattato dopo l'arresto e ho deciso di chiedere l'intervento della Croce rossa. Ho saputo che è molto malato”.
“Faremo la verifica richiesta - ha ribadito il presidente Barra - perché tutti i detenuti hanno diritto a vivere in condizioni umane e non degradanti”.
Successe anche per Saddam Hussein. Furono proprio i delegati della Croce rossa internazionale ad incontrare il raìs per verificare che non venisse sottoposto a torture e in ogni caso che gli fossero garantite condizioni di vita accettabili, sia pur in regime di massima detenzione.
Ieri mattina, inoltre, sono partite da Palermo le ruspe che la polizia utilizzerà per effettuare i "sondaggi di escavazione" attorno all'ultimo covo di Provenzano a Corleone.
Gli scavi saranno effettuati dagli "Esperti ricerca tracce" della polizia scientifica, per verificare se nel terreno circostante la masseria di Montagna dei Cavalli esistano cavità o nicchie che celino altri elementi utili alle indagini. Ricordiamo che nel covo di Provenzano sono stati inventariati oltre 300 reperti e circa 130 'pizzini', i messaggi di carta che il capomafia riceveva e inviava per governare Cosa Nostra dalla latitanza.