Duecento marines a Sigonella
Inviati i militari Usa dopo il blitz in Libia e la cattura del leader di Al Qaeda Abu Anas al Libi
È l'avamposto della guerra al terrorismo
DUECENTO MARINES USA SPOSTATI A SIGONELLA
di Guido Olimpo (Corriere.it, 09 ottobre 2013)
È dalla lontana vicenda della Achille Lauro che la base di Sigonella è al centro della lotta al terrore. E quando la tensione si alza la pista in terra siciliana si trasforma in punto d'appoggio essenziale per gli Usa. Il Pentagono ha trasferito dalla Spagna a Sigonella un'unità di pronto intervento. Una mossa legata a possibili ritorsioni dopo la cattura in una via di Tripoli di Anas Al Libi, vecchio esponente di Al Qaeda, ricercato da oltre 15 anni. Operazione condotta da un commando della Delta Force partito - secondo il quotidiano Times - proprio da Sigonella.
Nella base in Italia sono arrivati gli uomini della «Special Purpose Marine Air/Ground Task Force-Crisis Response», sigla chilometrica che include 200 marines, 4 velivoli a decollo verticale Osprey e due C-130 cisterna. Un distaccamento che si integra con gli altri mezzi presenti nell'installazione Usa, i droni da ricognizione e le cannoniere volanti. Il team agirà nel caso ci siano situazioni di emergenza a Tripoli o in altre zone sensibili.
Si tratta di un'unità già schierata in passato a Sigonella, in concomitanza con altri momenti di tensione in Nord Africa. Il dispiegamento della task force è una diretta conseguenza di quanto avvenne un anno fa con l'assalto al consolato di Bengasi. Il personale diplomatico era sotto assedio e nel «teatro» non c'erano forze sufficienti per intervenire. Un assalto concluso con l'uccisione dell'ambasciatore Chris Stevens e di altri tre americani. Fine tragica seguita da polemiche aspre con rimpallo di responsabilità tra agenti segreti, Pentagono e Dipartimento di Stato. Storia non ancora chiusa, capace di riservare altre sorprese, con la Cirenaica focolaio di violenza quotidiana e rifugio di cellule jihadiste. E il vicino Egitto sconvolto da repressione e attacchi quotidiani.
A Washington non vogliono correre altri rischi. Anche perché in Libia gli ambienti estremisti hanno lanciato minacce dopo il sequestro di Al Libi e lo stesso governo libico ha manifestato tutto il proprio dissenso per quello che considera un atto illegale mentre il Parlamento ha chiesto la restituzione del cittadino. Gli Usa, però, hanno altri programmi. Il terrorista, 49 anni, è sulla nave da sbarco statunitense San Antonio. Una detenzione in alto mare durante la quale l'estremista sarà interrogato da uno speciale team composto da agenti Fbi e della Cia. Un «lavoro preventivo» e senza l'assistenza di un legale prima del successivo trasferimento (almeno questo è il programma) in un tribunale di New York. I familiari dell'estremista hanno sostenuto che il congiunto era fuori dall'arena qaedista - qualche esperto neutrale la pensa così - gli investigatori ribattono: «Ha molto da raccontare su quanto ha combinato in passato e, forse, sulla nuova realtà eversiva presente in Libia». A Tripoli hanno, invece ricordato, il recente passato di Al Libi. I dieci anni nelle mani degli iraniani, un figlio perso nella rivolta antiGheddafi, un nipote capo della milizia Isnad, una vita in apparenza tranquilla.
Il caso ha sollevato critiche da quanti considerano l'operazione condotta dalla Delta Force un'atto extragiudiziario identico a quelli della presidenza Bush. La cattura di Al Libi è di fatto una rendition, un sequestro simile a quello di Abu Omar a Milano nel 2003. Inoltre il terrorista, coinvolto in un duplice attentato in Africa nell'agosto 1998 (oltre 200 i morti), è appunto in una cella di una nave. Lo stesso sistema impiegato fino al 2008, con ben 17 navi della Marina messe a disposizione come prigioni galleggianti. Il metodo sembrava essere stato abbandonato, ma nel 2011 è stato riattivato e un militante somalo preso nel Golfo di Aden è stato tenuto per due mesi su un'unità navale Usa. Un'alternativa, discreta, a Guantanamo nel tentativo di trovare risposte ad avversari diversi.
La missione della Casa Bianca non è agevole. Lo si è visto con la fallita incursione in Somalia, operazione per catturare tre esponenti di rilievo degli Shebab. Tutto è andato storto perché i commandos, dopo essere stati scoperti, hanno accertato che attorno al bersaglio c'erano troppi civili e il rischio di fare molte vittime era alto. Raid abortito - è la spiegazione - per una carenza dell'intelligence, le informazioni passate ai Seals non erano abbastanza precise.