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Giustizia per i fantasmi di Portopalo

Dopo 12 anni un pezzo di Giustizia per gli immigrati dimenticati nei fondali del Mediterraneo

10 aprile 2008

Quegli uomini che sono stati troppo a lungo "fantasmi", dimenticati nei fondali del Mediterraneo, oggi, dopo 12 anni, ottengono finalmente un pezzo di giustizia, con la prima condanna a 30 anni inflitta ieri pomeriggio dalla Corte d'Assise d'Appello di Catania a Youssef El Hallal, comandante libanese della "Yohan", la nave cargo greca che nella notte tra il 25 e il 26 dicembre 1996, entrò in collisione con l'imbarcazione di 16 metri - la F174 - carica immigrati al largo di Portopalo di Capopassero (SR), provocando la morte in acque internazionali di 283 immigrati (160 indiani, 31 pakistani e 92 tamil), o forse di 289.
Non si saprà mai con certezza.
Youssef El Hallal era accusato di omicidio plurimo. A pronunciare la sentenza il presidentre Francesco Virardi che ha stabilito anche una provvisionale di 20 mila euro per ognuna delle oltre quaranta famiglie delle vittime. L'accusa, il sostituto procuratore generale Giulio Toscano, aveva chiesto per lui l'ergastolo.
Lo scorso anno, a maggio, la Corte d'Assise di Siracusa aveva assolto Tourab Ahmed Sheik, pakistano residente a Malta, armatore della F174, per non avere commesso il fatto. Il pm, Filippo Focardi, aveva chiesto l'ergastolo.

Per gli avvocati di parte civile questa sentenza significa "comunque uno spiraglio di giustizia". "Noi continueremo - ha detto l'avvocato Simonetta Crisci - nel lavoro di ricerca della verità e della giustizia anche nel processo d'appello che comincerà nei prossimi mesi a Catania all'armatore pachistano Turab Ahmed Sheik che fornì la barca affondata assolto a Siracusa".

Quella di Portopalo prima di diventare una tragedia, la più grave sciagura navale del Mediterraneo dalla fine della seconda Guerra mondiale, è stato un affare per i mercanti di uomini. Dopo aver pagato un migliaio di dollari a testa per essere imbarcati nel porto del Cairo, in centinaia iniziano la loro disperata traversata. Una nave stracarica di migranti, la "Yohan", dopo un viaggio massacrante e di stenti durato settimane, qualche giorno prima di Natale arriva in un porto siciliano pronta per lo sbarco, ma intercetta dalla Guardia Costiera si da' alla fuga e raggiunge il largo. I trafficanti decidono allora di aspettare una nave più piccola per il trasferimento a terra. Devono incontrare la F174 partita da Malta, effettuare il trasferimento degli uomini e delle donne per poi concludere il viaggio sulle coste siciliane. Un trasbordo obbligato, poiché la Yohan è troppo grande per una simile operazione. Ma qualcosa va storto: la piccola imbarcazione è una delle classiche "carrette del mare", un ammasso antico di legno e resina incapace di contenere tutti quei passeggeri. E, come se non bastasse, il comandante ubriaco compie manovre azzardate e incoscienti nel mare in tempesta. Proprio mentre una prima metà di passeggeri è passata sulla piccola nave, questa viene speronata dalla Yohan, procurandosi una grande falla. Cola a picco: in almeno 283 vengono inghiottiti dalle onde, mentre il capitano e altri ventinove riescono ad aggrapparsi alle funi e a salvarsi...

Un vero e proprio cimitero quello sul fondale di Portopalo, un cimitero di fantasmi, di mai esisititi, perché anche chi sapeva dell'immane sciagura rimase in silenzio per paura di possibili conseguenze. La tragica storia venne a galla all'incirca cinque anni dopo, grazie alla tenacia e alla sete di verità del giornalista di Repubblica Giovanni Maria Bellu. Con un'inchiesta, che di seguito riportiamo, squarciò il velo sui ''fantasmi di Portopalo'' e finalmente la Giustizia cominciò a fare il suo corso per ridare dignità a quegli uomini morti da soli la notte di Natale.

Il cimitero in fondo al mare
Prova del naufragio fantasma
di Giovanni Maria Bellu (la Repubblica, 15 giugno 2001)

PORTOPALO - Abbiamo trovato la nave del "naufragio fantasma". Nord: 36, 25', 31''; est: 14, 54', 34'', acque internazionali a diciannove miglia da Portopalo di Capo Passero, estremo lembo meridionale della Sicilia e dell'Italia. Abbiamo scoperto il più grande cimitero del Mediterraneo: decine e decine di scheletri avvolti negli stracci a 108 metri di profondità, nel punto del Canale di Sicilia dove da anni i pescherecci di Portopalo non andavano più per non rischiare di lacerare le paranze. Il relitto, un barcone di legno dentro il quale ci sono ancora dei cadaveri, era proprio là. Abbiamo filmato e fotografato le falle che alle tre del mattino del 26 dicembre del 1996 lo mandarono a picco col suo carico umano: 283 clandestini indiani, pakistani e cingalesi di etnìa tamil. La prua è spezzata come da un terribile colpo di maglio, la fiancata destra è squarciata che nemmeno un colpo di cannone. Avevano ragione i pochi sopravvissuti sbarcati dai trafficanti di uomini sulle coste della Grecia alle vigilia di Capodanno: qui, tra la Sicilia e Malta, era avvenuta la più grave sciagura navale del Mediterraneo dalla fine della seconda guerra mondiale. "Il presunto naufragio", secondo le nostre autorità marittime che hanno trattato la vicenda come una leggenda di pescatori. "Il presunto naufragio", scriveva nel maggio del 1997, cinque mesi dopo, il nostro ministero degli Esteri in una lettera all'ambasciata pakistana.

Si chiama Rov (Remotely operated vehicle). E' una sfera di plexiglass e di plastica gialla. Dentro c'è una telecamera, all'esterno piccole eliche che, dal ponte della nave, consentono a un pilota di dare al robot la direzione voluta. Ora il Rov sorvola il fondale di fango giallo ocra che sembra la superficie della luna, solo che i crateri sono le tane dei gamberi. Ogni tanto fa una capriola e sul monitor il giallo sfuma nell'azzurro del mare. Altre volte tocca il fondale sollevando piccoli tornado di fango. Ha vagato già per un quarto d'ora, il Rov, quando inquadra un essere marino dalla forma mai vista. Una scarpa. Da ginnastica. Si ferma, la scruta per un po', riprende il volo. I fari illuminano una remota foschia di plancton dentro la quale s'intravvede un rilievo. E' un sari di tessuto damascato e leggero che lassù deve aver vibrato al più piccolo alito di vento e che ora invece è fermo, come inamidato, ed è strano che i motori del Rov spostino le stelle marine più grosse ma non questo sari adagiato sul fondo del Canale di Sicilia. E che anche quei jeans che compaiono poco lontano si muovano appena quando il Rov va a sbatterci contro. C'è qualcosa che li tiene. Dalla vita spunta un bastone bianco e nodoso. E' la testa di un femore.
 
***

Ci sono corpi che comunicano una lotta feroce con la morte. Sono le camicie e i pantaloni con le braccia e le gambe aperte, con la posa del pugile steso sul ring. Ce ne sono altri, e sono i più, che raccontano la paura impotente, l'orrore. E questi fai fatica a individuarli come corpi umani perchè sono fagotti di stracci chiusi in posizione fetale. In comune, gli uni e gli altri, hanno l'assenza della testa. Il mare ha decapitato tutte le vittime del naufragio di Natale. Ma quando il Rov sorvola l'"area cimiteriale", noti che spesso ai crateri dei gamberi s'alternano piccoli rilievi, mezze sfere coperte di fango. Se il parroco di Portopalo avesse visto tutto questo non avrebbe detto che il mare è un luogo di pace "quanto e forse anche più della terra".
Il Rov sembra smarrito. Non sa da che parte girarsi. Finchè ha sorvolato il fondale lunare è andato avanti spedito, come un piccolo ricognitore in volo tattico. Ora ha tante cose da guardare . I mucchi di ossa e di stracci sono più fitti, più vicini tra loro. E poi compaiono oggetti diversi: una grossa paratia, un parabordo spaccato in due, una valigia, una piccola borsa da donna. E altre scarpe, di tutte le fogge, anche se prevalgono quelle da ginnastica, le più comode ed economiche per chi deve affrontare un lungo viaggio. Sicuramente anche Anpalagàn le calzava.

***

Se un giorno qualcuno, ignorando il fatto che questo è mare di nessuno, deciderà di intervenire per raccogliere i resti delle vittime e dar loro sepoltura, allora tutti dovranno dire che è stato Anpalagan Ganeshu, 17 anni, da Chawchsceri, zona tamil dello Sri Lanka, a liberare dalla prigione del mare i suoi compagni di sventura. Fino poco tempo fa, Anpalagan era come uno di loro: uno scheletro tenuto assieme da un paio di jeans e una t shirt. Verso la fine dello scorso aprile è stato preso in pieno da una paranza e forse anche dal divaricatore della rete: un quintale di legno bordato di ferro che deve aver fatto a pezzi i suoi poveri resti. Ma la carta d'identità plasticata, che già aveva sopportato quattro anni e mezzo di mare, ha resistito anche a quell'ultima violenza ed è ricaduta sul ponte.
Un pescatore l'ha raccolta.
Strana storia. Nelle settimane dopo il naufragio, i pescatori di Portopalo nelle loro reti trovavano i cadaveri ancora intatti e li ributtavano in mare per evitare di perder tempo con la capitaneria di Porto. Ma alla fine è stato proprio uno di loro a raccogliere e consegnare il messaggio di Anpalagan, a farlo pubblicare sul nostro giornale, a farlo circolare nelle comunità tamil, a farlo giungere ai parenti di Anpalagan che, una settimana fa, hanno dato la conferma definitiva del fatto che in quel punto c'era la nave scomparsa: il ragazzo era tra i passeggeri.

***

Il fondale di fango è un gigantesco canale sottomarino che unisce la Sicilia e Malta. Decine di miglia di deserto lunare interrotte solo da qualche solco di rete a strascico. Gli scogli sono lontanissimi e quell'ombra che ora il Rov illumina debolmente ti pare uno scherzo geologico, un faraglione subacqueo, finchè non noti i contorni netti dei manufatti umani. Il relitto della "nave fantasma" si materializza nel mezzo d'un caos di stracci e di legni, di tubi e di poveri oggetti. La luce dei fari fa fuggire le cernie e i gronghi che vi hanno da tempo fatto tana, resta solo, come inebetito, un grosso scorfano rosso che ha il muso attaccato a una scarpa, come se volesse baciarla.
Vola il Rov sul ponte, dondola su una botola quadrata, plana lentamente puntando i fari verso l'interno. Si ferma. Quattro giorni dopo la tragedia, i superstiti raccontavano alla polizia greca d'una bara bianca galleggiante di diciotto metri per quattro giunta da Malta. Dicevano di averla osservata con immediata preoccupazione dal ponte della grossa motonave, la "Iohan", che da Alessandria d'Egitto li aveva condotti fino a quel punto del Mediterraneo. Sarebbero dovuti salire lì, col mare in tempesta, per arrivare fino alle coste italiane delle quali si scorgeva, e molto lontana, solo qualche debole luce. Con rabbia spiegavano che in molti avevano tentato di rifiutare il trasbordo, ma erano stati convinti con le armi dal comandante, un libanese ubriaco. Dicevano che i loro compagni erano stati costretti a entrare a uno a uno in un buco che conduceva alle celle del pesce. Per questo, infatti, quella barca maltese era usata normalmente.
Ecco qua l'ingresso della bara. Il faro dall'esterno ne illumina tutte le pareti. Poi si volta, punta verso la cabina di comando. E sembra di vederlo Marcel Barbara, comandante maltese, complice dei criminali della "Iohan", quando si accorge che il carico è accessivo, che le onde coprono la sua bagnarola. Vira di centottanta, punta la prua verso l'"ammiraglia", chiede aiuto. E la "Iohan" manda le macchine al massimo, sembra che arrivi in soccorso. Lo schianto è devastante.

***

Il Rov ora torna giù, verso la chiglia, scruta la prua ferita, ne scopre un pezzo che, staccato del tutto, giace nel fango qualche metro più in là. Si sposta sulla fiancata destra, incrocia una rete da paranza - proprio come dicevano i pescatori - impigliata sullo squarcio prodotto quella notte dalla prua della "Iohan". Qua la nave è in sezione, come una casa per le bambole: distingui le paratie che separavano le celle del pesce. Risale, aggira la cabina di comando, sorvola la poppa. C'è, in un punto dove la fiancata è integra, un portellone chiuso. Raccontavano i superstiti che mentre la nave andava a picco, sentivano i lamenti di chi, da giù, spingeva per uscire. Ma i portelloni erano bloccati dal peso di chi, sul ponte, non aveva il coraggio di buttarsi in mare o sperava di agguantare qualcuna delle cime alla fine lanciate dalla "Iohan". Il portellone accanto, invece, è aperto. Il faro adesso lo illumina dall'alto: dentro la cella ci sono ancora due corpi che dondolano, con le braccia aperte, come crocefissi.

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10 aprile 2008
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