Grand Budapest Hotel
Un giallo raccontato come una commedia, un dramma raccontato come una favola
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GRAND BUDAPEST HOTEL
di Wes Anderson
Sullo sfondo del furto - e del successivo recupero - di un celebre dipinto rinascimentale, si svolgono le (dis)avventure di Gustave H, perfetto concierge di un albergo lussuoso, e dell'amicizia che lo lega a Zero Moustafa, il giovane fattorino che ben presto diventerà il suo protetto...
Anno 2014
Nazione Gran Bretagna, Germania
Produzione Wes Anderson, Scott Rudin, Steven Rales, Jeremy Dawson per American Empirical Pictures, Indian Paintbrush, Scott Rudin Productions, Studio Babelsberg
Distribuzione 20th Century Fox Italia
Durata 100’
Ispirato ai racconti di Stefan Zweig
Soggetto Wes Anderson e Hugo Guinness
Regia e Sceneggiatura Wes Anderson
Con Ralph Fiennes, Tony Revolori, Adrien Brody, Willem Dafoe, Harvey Keitel, Jude Law, Bill Murray, Edward Norton, Jason Schwartzman, Tilda Swinton, Owen Wilson
Genere Commedia, Drammatico
In collaborazione con Filmtrailer.com
La critica
"A vedere 'Grand Budapest Hotel', lasciandosi incantare dalle sue assurdità, viene voglia di pensare che un autore dalla cifra personale e inimitabile è quello che se avesse sottoposto a chiunque un progetto come questo, quando ancora non era famoso, sarebbe stato trattato come un eccentrico svitato, accompagnato alla porta e invitato a cambiare strada. Nella peggiore delle ipotesi, sbattuto fuori a calci assieme alla sua strampalata sceneggiatura con l'intimazione di non farsi vedere mai più. Siamo davanti al miracolo della creazione di una cosa che prima non c'era, prodotta dalla fantasia eccezionale di un artista. (...) Nessuno degli aggettivi che salgono spontanei nel vedere il film è inappropriato: delizioso, squisito. Garbo e grazia sono di casa. Profilo non nuovo per l'autore di 'Moonrise Kingdom' e 'Fantastic Mr. Fox'. Tuttavia qui la consistenza di monumento all'inconsistenza, al superfluo, surclassa caratteristiche già largamente espresse nei precedenti 'Il treno per Darjeeling' e 'Le avventure acquatiche di Steve Zissou'. Mentre, senza perdere in leggerezza, ci si riavvicina alla solidità del primo exploit, 'I Tenenbaum'".
Paolo D'Agostini, 'la Repubblica'
"S'intitola 'Grand Budapest Hotel' l'ennesimo sogno anticato-cinéfilo di Wes Anderson, uno degli autori più meravigliosamente disimpegnati del panorama contemporaneo. Se si è in grado di rinunciare al sostegno di una storia scritta e diretta con ogni bullone al suo posto, quest'ora e quaranta di stravaganti schermaglie comunicano, infatti, un'euforia di rara eleganza, particolari toni di sensibilità surrealista e soprattutto il gusto di quel voluto artificio che stava alla base dell'ingresso in una sala cinematografica. È notorio come l'albergo sia stato da sempre un luogo d'elezione per i voyeur con la cinepresa, tanto è vero che ogni cinefilo potrebbe farsi la propria classifica scorrendo l'interminabile elenco che va da 'Grand Hotel' a 'L'anno scorso a Marienbad', da 'Barton Fink' a 'Pretty Woman': il texano meno texano che si possa immaginare Wes, però, insegue da sempre un 'altrove' favolistico privato in cui potere spostare a piacimento le sue stralunate persone/pedine su scacchiere sociali e familiari altrettanto imprevedibili. Così accade in questa chicca per affezionati, strappata alla sua spontanea ritrosia dal Gran Premio della Giuria all'ultimo festival di Berlino (...) Non si contano i personaggi bizzarri, misteriosi, commoventi, sfuggenti che sembrano prendere per mano lo spettatore per raccontargli tutto e poi lo abbandonano nelle braccia del narratore seguente; tanto è vero che ne scaturisce una passerella interminabile d'interpreti (Fiennes, Law e Murray Abraham in testa) celebri, però ligi allo spazio che gli è concesso. Ci sarebbero anche i fatti tra il giallo, il noir e il rocambolesco, ma non è certo in questi passaggi un tantino slabbrati che si può trovare conferma del talento da operetta dell'ineffabile Anderson."
Valerio Caprara, 'Il Mattino'
"Ah, che bel film. Una commedia tra favola e operetta, scritta e diretta da un Wes Anderson in gran forma, che viaggia a ritroso nel tempo, inventando cinema a ogni cambio di scena. (...) la storia non ha importanza, di fronte al fascino di colori, costumi e di un raffinatissimo umorismo."
Massimo Bertarelli, 'Il Giornale'
"'The Grand Budapest Hotel' sembra uno dei dolci che prepara nel film la dolce Agatha (Saoirse Ronan) dove panne, spumoni e variopinte meringhe si impilano sostenuti da un miracoloso equilibrio. Anche il suo film mescola elementi eterogenei, dai formati di proiezione-panoramico per le scene ambientate oggi, wide screen (più stretto e lungo, tipo CinemaScope) per quelle negli anni Sessanta e il classico Academy (quasi quadrato) per gli anni Venti e Trenta - alle epoche temporali ai riferimenti storici, per costruire un mondo che sappia coniugare il piacere della fantasia e l'ambizione del racconto morale (ispirato agli scritti di Stefan Zweig). Al centro di tutto, a fare da calamita e insieme motore, la figura di Gustave H. (Ralph Fiennes), leggendario concierge del Budapest Hotel nell'immaginario stato europeo di Zubrowka, depositario dei segreti e dei desideri dei ricchi ospiti dell'albergo, soprattutto di sesso femminile.
Al suo fianco, apprendista e insieme protégé, il fattorino Zero (Tony Revolori), senza famiglia e identità, che seguirà e aiuterà Gustave nel momento più difficile della sua vita, quando verrà accusato di aver avvelenato la facoltosa Madame D. (una Tilda Swinton quasi irriconoscibile sotto una turrita e candida parrucca), per impossessarsi di un suo prezioso quadro. L'ambizione dichiarata di Anderson era quella di ritrovare la leggerezza e la grazia delle commedie «alla Lubitsch», dove le più sorprendenti delle situazioni sapevano affascinare e divertire nonostante la loro dichiarata falsità. Operazione rischiosa e complicata che Anderson non sempre riesce a controllare perfettamente. Dalla sua (e del suo cosceneggiatore Hugo Guinness) ci sono le continue invenzioni narrative che prendono la forma (e il volto) di personaggi inaspettati (Harvey Keitel calvo e tatuato detenuto, Bill Murray baffuto membro del «club delle chiavi incrociate», Willem Dafoe sadico killer paranazista). Ci sono le improbabili ma divertenti location, tra piste di bob e salvifici conventi. E c'è il piacere tutto estetico dei colori saturi e delle scenografie trompe l'oeil. Ma alla fine la storia rischia di girare a vuoto. O meglio: non riesce a trovare quella forza e quella necessità che nei film di Lubitsch sapevano trasformare lo stile in qualcosa capace di parlare al cuore e all'intelligenza insieme."
Paolo Mereghetti, 'Corriere della Sera'
Film d'apertura al 64/mo Festival di Berlino (2014), ha vinto l'Orso d'Argento Grand Jury Prize