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I pizzini e le lettere di Bernardo Provenzano come le tessere del un grande puzzle della sua lunga latitanza

05 maggio 2006

Come le tessere di un puzzle di migliaia e migliaia di pezzi, i tanti "pizzini" trovati nell'ultimo covo corleonese di Bernardo Provenzano stanno dando, piano piano, una forma alla storia della sua lunga latitanza.
Per esempio, la lettera trovata nel covo e che ha permesso l'arresto del nipote-segretario di Provenzano, Carmelo Gariffo, e che si ritiene essere stata inviata al boss da un medico che lo curava, ha messo ulteriormente in evidenza le complicità che vi sarebbero nel mondo sanitario con quello di Cosa nostra.

Di seguito riportiamo il messaggio testuale (compresi gli errori ortografici), scritto da un professionista che si nasconde dietro il numero in codice 60:
"Carissimo con gioia ho ricevuto tue notizie mi dispiace sentirti dire che stai non molto bene e la cosa mi fa stare male, capisco che i tuoi movimenti non sono normali come ognuno di noi ma bisogna che si prenda un provvedimento urgente magari solo per fare la puntura perché non farla puo peggiorare la tua situazione in poche parole i valori che tu tieni sotto controllo possono variare in negativo. quindi studiamo un qualcosa come fare per praticare questa puntura ti ricordo che io sono a tua completa disposizione valuta tu la cosa per poi parlarne con 123 ove potrei venire e nell'occasione se possibile potrei farti anche il prelievo che anche questo e importante per valutare i valori come sono dato che da un bel po che non lo facciamo rinnovo a dirti di non perdere ancora tempo quello che puo succedere e che puoi peggiorare la tua salute...".

La lettera, depositata agli atti dell'inchiesta che ha portato all'arresto di Gariffo, nipote di Provenzano e suocero di Giuseppe Lo Bue, arrestato il 12 aprile perché accusato di essere uno dei postini del padrino di Corleone, fa riferimento ad alcuni controlli sanitari a cui il latitante deve essere sottoposto.
Il nipote del boss suggerisce in un'altra lettera (anche questa trovata dalla polizia nel covo di contrada Montagna dei Cavalli)  il giorno in cui effettuare la visita medica e il luogo. Gariffo sconsiglia alcune zone perché ritiene che sono controllate "dagli sbirri". Il "segretario" suggerisce quindi un luogo messo a disposizione da un favoreggiatore di Corleone, ma sottolinea nella lettera che nella zona vi abita "uno sbirro".
Il medico che avrebbe dovuto effettuare la visita era stato convocato per mercoledì sera e sarebbe poi tornato a casa la mattina del venerdì Santo.

Dalle lettere emerge inoltre che Carmelo Gariffo era la persona di assoluta fiducia di Provenzano; al "segretario" del boss venivano affidati i compiti più importanti e delicati: dai contatti con gli altri affiliati, all'acquisizione di somme di denaro, ai rapporti con i familiari per questioni economiche risalenti nel tempo che sono riusciti a sottrarre alle indagini per le misure di sequestro e confisca dei beni, fino all'assistenza medica del capo di Cosa nostra.
Un altro particolare emerge poi dall'intercettazione di una conversazione fra Gariffo e Simone Provenzano, fratello del capomafia. Il boss avrebbe avuto durante la latitanza un computer in cui teneva la contabilità di Cosa nostra. Ma a causa di un guasto tecnico il boss avrebbe perso tutti i dati e così è stato costretto a rifare i conti con l'aiuto dei gregari che gli avevano inviato le somme di denaro da ogni parte della Sicilia.
Già in passato il pentito Nino Giuffrè aveva parlato di un piccolo computer portatile, probabilmente un databank, su cui il capomafia annotava dati e cifre.
In un "pizzino" trovato nel covo in cui è stato arrestato Provenzano, si fa riferimento a questo piccolo computer. Il boss richiede, infatti, delle "batteria al lidio" per il suo databank. Ma dopo il black out della memoria il boss sembra essere tornato alle vecchie maniere, trascrivendo a mano le cifre della cassa.

E sempre dalle lettere ritrovate nella masseria e dalle intercettazioni ambientali che riguardano Gariffo, emerge che Provenzano aveva anche un autista, indicato con il "numero 5". Questa persona, sulla quale sono in corso indagini per accertarne l'identità, andava a prendere Provenzano con un'automobile per trasportarlo in prossimità dei luoghi in cui effettuava gli appuntamenti.
Gli spostamenti sarebbero avvenuti sempre con il buio. Provenzano si faceva venire a prendere dall'autista a notte fonda o all'alba, ma non si faceva lasciare mai sul luogo dell'incontro. Bensì a distanza, e lo raggiungeva a piedi in modo da poter controllare il territorio e non far scoprire agli altri mafiosi l'identità del suo autista.

Intanto, altre tessere del grande puzzle della latitanza di Provenzano si sono trovate in un altro processo di mafia, più precisamente quello che vede imputato l'ex presidente del consiglio comunale di Villabate, e adesso importante collaboratore di giustizia, Francesco Campanella.
Stamani Campanella, interrogato nell'aula bunker di Firenze dal pm Alessia Sinatra, ha infatti parlato del ruolo che ebbe il boss di Villabate, Nicola Mandalà, nella latitanza di Bernardo Provenzano.
"Mandalà - ha detto il collaboratore di giustizia - crebbe grazie al rapporto che aveva con Provenzano e che lo portò a gestire i mandamenti di Belmonte, Misilmeri e Bagheria, oltre che Villabate ed era in contatto con tutte le grandi famiglie di Palermo". Fu proprio Mandalà, ricorda Campanella, a chiedergli di falsificare la carta d'identità che servì a Provenzano per andare a Marsiglia ad operarsi. "La falsificazione non era buona - ha detto Campanella - ma Mandalà mi disse di stare tranquillo perché l'ospedale a Marsiglia aveva già i moduli della Regione Siciliana utili per i ricoveri all'estero e che, quindi, la carta d'identità serviva soltanto per emergenze che potevano evidenziarsi durante il viaggio".
"Nicola Mandalà era diventato il gestore della latitanza di Provenzano - ha ribadito Campanella -. Mi chiese di procurargli anche tre telefonini vergini che sarebbero serviti alla staffetta di auto poste a tutela del viaggio di Provenzano".

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05 maggio 2006
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