I ''pizzini'' e le ''talpe'' di ''Binnu u tratturi'', latitante dal 1963
Come ha fatto Bernardo Provenzano a nascondersi per 42 anni
Bernardo Provenzano, l'ultimo dei ''corleonesi'', è latitante dal settembre del 1963. Lo chiamano ''Binnu u tratturi'' per dire che marcia e supera gli ostacoli con la forza di un trattore.
La sua vera forza viene dalla prudenza metodica e dall'intelligenza tattica con la quale gestisce la sua interminabile latitanza e dalla rete di protezioni che continua a resistere malgrado i colpi micidiali inflitti alla mafia negli ultimi tempi.
Ogni volta che scatta una retata, come quella della notte scorsa, gli investigatori sostengono che ormai il cerchio si stringe attorno al capo di Cosa nostra. ''Provenzano è braccato'', dicono gli inquirenti, ma ''Binnu'' riesce sempre a ricucire gli strappi e a tamponare le falle che si aprono nel suo ormai consolidato sistema di intelligence.
Due sono ancora gli elementi fondamentali su cui si regge l'organizzazione di Provenzano.
Il primo è quello che il procuratore Pietro Grasso ha definito, in occasione dell'operazione ''Grande mandamento'', il ''Ministero delle poste e delle telecomunicazioni'' del boss che utilizza un mezzo arcaico ma pur sempre efficacissimo come l'uso massiccio di bigliettini: i famigerati ''pizzini'' nei quali impartisce direttive, fissa appuntamenti, distribuisce appalti, orienta le sensibilità politiche delle cosche, riesce perfino a ordinare le specialità gastronomiche di cui è goloso come ''miele e cicoria''. Una rete di collegamenti che appare ogni giorno più vasta di quanto si immaginasse, e che comprende un piccolo esercito di postini di assoluta fiducia che seguono percorsi tortuosi - da Modena a Vittoria, da Agrigento a Caltanissetta -, per consegnare ai destinatari i ''pizzini'' chiusi con il nastro adesivo. Inoltre, pochi tra i tanti postini si conoscono tra loro perché l'inafferrabile padrino ha cura di introdurre periodicamente nuovi ''filtri'' tra sé e le persone chiamate a svolgere il servizio di recapito dei suoi messaggi.
Inoltre nessuno sa dove incontrerà Provenzano. Non lo sapeva neppure Antonino Giuffrè che, prima di scegliere la via della collaborazione, era uno dei suoi più influenti luogotenenti. Tutte le misure di ''osservazione'', anche quelle più sofisticate, si sono rivelate inefficaci. Il padrino ha un metodo semplicissimo per disattivare i servizi di intercettazione. A tutti i suoi interlocutori raccomanda la massima cautela nei movimenti e l'adozione di accorgimenti che riescano ad aggirare perfino i pedinamenti con il satellite. I fiancheggiatori hanno sempre mostrato di avere appreso con profitto la lezione del capo.
Nessuna diavoleria elettronica è riuscita fino ad ora a violare il reticolo comunicativo di Provenzano. Depone a suo straordinario vantaggio anche il fatto che in mano agli investigatori c'è una vecchia foto ormai sbiadita, e praticamente inutile, che risale agli anni giovanili. Mostra il volto fiero e lo sguardo penetrante di un ''picciotto'' destinato a una carriera travolgente.
L'altro punto di forza della sua lunga latitanza è rintracciabile in un'altra rete parallela - non meno estesa del clan dei postini - di talpe, di infiltrati insospettabili e di sensori ambientali che puntualmente lo mettono in guardia.
Come in quell'ultimo caso conosciuto dagli investigatori e ricostruito attraverso l'inchiesta sul ritrovamento di una delle sue lettere, indirizzata all'ex boss Antonino Giuffré, quando nell'aprile del 2002, atteso dai suoi in un summit di capi clan, Provenzano riuscì a sapere in tempo che un reparto speciale antimafia aveva nascosto microspie e telecamere nel luogo. Le telecamere furono neutralizzate: obiettivi mirati verso il basso. Nessuno parlò più nella stalla dove c'erano le microspie né fu mai più utilizzata un'automobile dove venne trovata una "cimice".
Così i carabinieri e i magistrati della Procura di Palermo ricevettero per giorni e giorni filmati che riprendevano soltanto piedi e nastri che registravano soltanto silenzi.
O come quando, l'anonimo che consentì agli investigatori di catturare il capomafia di Caccamo, Antonino Giuffrè in una stalla di Temini Imerese, chiese telefonicamente ai carabiniere di ''non tenere conto dei 'pizzini' che sarebbero stati trovati addosso al boss''. Per ricompensare i militari, nel caso in cui avessero seguito il suo invito, l'anonimo ''avrebbe fatto arrestare un altro latitante importante nella zona del termitano''. I carabinieri trovarono Giuffrè e con lui un'enorme mole di bigliettini che gli erano stati inviati da Provenzano.