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I tempi del "processo Mori" rischiano d'allungarsi

I pubblici ministeri chiedono l'ammissione di nuovi testimoni, tra questi la vedova Borsellino

31 marzo 2012

Rischiano di allungarsi i tempi del processo al generale dei carabinieri Mario Mori, imputato, a Palermo, di favoreggiamento alla mafia. I pm che sostengono l'accusa, Nino Di Matteo e Antonio Ingroia, hanno chiesto nuove citazioni testimoniali. Sul banco dei testi, se i giudici della quarta sezione del tribunale li ammetteranno, saliranno la vedova del giudice Paolo Borsellino, Agnese Piraino, il magistrato Alessandra Camassa, che fu sostituto procuratore a Marsala quando Borsellino era procuratore, il pentito Gaspare Mutolo, il tenente colonnello Domenico Di Petrillo, il figlio del maresciallo Antonio Guazzelli, Riccardo, il generale Antonio Subranni, ex capo del Ros, l'ex capo scorta del numero due del Dap Francesco Di Maggio, Nicola Cristella, la giornalista dell'Unità Sandra Amurri.

I pm hanno chiesto anche due confronti: tra l'ex Guardasigilli Claudio Martelli e l'ex ministro dell'Interno Nicola Mancino e tra l'ex ministro degli Esteri Enzo Scotti e lo stesso Mancino. Sulle richieste istruttorie il legale di Mori, Basilio Milio, si pronuncerà dopo i depositi dei verbali di interrogatorio resi dai potenziali testi. Poi la parola passerà al tribunale che dovrà decidere sulle ammissioni.
La vedova Borsellino, in particolare, potrebbe essere chiamata a raccontare quanto già detto ai pm di Caltanissetta sulle confidenza ricevute dal marito prima del suo assassinio a proposito dell'esistenza di una trattativa tra pezzi infedeli dello Stato e la mafia e sul generale Antonio Subranni che, secondo quanto riferisce la Piraino riportando le parole del giudice, sarebbe stato "puniciuto" (affiliato a Cosa nostra, ndr). Il processo è stato rinviato al 20 aprile.

Nicolò Amato: "Mi hanno fatto fuori per la trattativa" - Si definisce 'una vittima della trattativa tra lo Stato e la mafia', e spiega "Sono l'agnelo sacrificale fatto fuori per attuare una politica carceraria più morbida nei confronti della criminalità organizzata". L'ex capo del Dap, Nicolò Amato, protagonista istituzionale della stagione delle stragi del '92 e '93, intervistato dal 'Corriere della Sera', ha lanciato la sua denuncia: "Se avessero accolto le mie proposte, anziché cacciarmi, la lotta alla criminalità non sarebbe arretrata e non ci sarebbe stato nemmeno l'oggetto dell'eventuale trattativa".
Amato chiarisce l'equivoco sul 41 bis, il carcere duro per i mafiosi: "Io proponevo di sostituirlo con una legge che rendesse obbligatorio il controllo audio e la registrazione dei colloqui dei detenuti, per impedire sul serio le comunicazioni dei mafiosi con l'esterno. Era l'unica norma efficace - sottolinea - che poi fu introdotta nel 2002, 9 anni dopo la mia proposta". Dunque, precisa, "proponevo di sostituire il carcere duro con una legge ancora più incisiva, che avrebbe eliminato la discrezionalità delle misure restrittive, eliminando l'oggetto stesso dell'ipotetica trattativa: se una cosa è discrezionale si può spingere per farla rimuovere, se è obbligatoria per legge non più".
"La verità è che io sono diventato una specie di capro espiatorio, mentre ho la prova che la mia cacciata avvenne su precisa richiesta della mafia", aggiunge l'ex capo del Dap, e spiega "Sto parlando della lettera anonima arrivata all'allora presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, in cui un gruppo di sedicenti parenti di reclusi al 41 bis lanciava minacce se non si fosse attenuato il regime carcerario. Una lettera spedita anche a Maurizio Costanzo, al vescovo di Firenze e al Papa". "Allora - ricorda - nessuno mi disse nulla, l'ho scoperta ora. Ma in quella lettera si intimava di 'togliere gli squadristi al servizio del dittatore Amato'. Volevano la mia testa, insomma, e l'hanno ottenuta subito dopo le bombe contro Costanzo e gli Uffizi".

[Informazioni tratte da ANSA, Lasiciliaweb.it, Adnkronos/Ing]

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31 marzo 2012
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