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Il boss dei boss ordinava le stragi con i ''pizzini''

Articolo di Vincenzo Vasile

14 aprile 2006

(l'Unità, 12 aprile 2006)

In siciliano si chiamano pizzini, pezzettini di carta, biglietti. E nell'aprile 2001 Binnu u tratturi (il trattore, ingombrante e schiacciatutto), Bernardo il grafomane, ne scrisse uno dei tanti, una richiesta di estorsione: «Io sono nato per servire», così si congedava dalla vittima, che capì la circonlocuzione spagnolesca, e riprese a pagare il pizzo.
Nato per servire, costretto a comandare da una storica ''missione'', Bernardo Provenzano, catturato ieri dopo 43 anni di latitanza, comunicava con questi bigliettini spesso sgrammaticati, ma efficaci per avere un ritratto aggiornato di Cosa Nostra del Terzo Millennio. Che si scopre molto simile, nonostante i luoghi comuni, alla Cosa Nostra di sempre, impasto di vecchio e nuovo, di modernità e arcaismi, di violenza e mediazione, di conflitto sanguinoso e di capacità di penetrazione.
L'epistolario di Provenzano, infatti, era frequente e fluviale. E viveva di un continuo canale di reciprocità: un commerciante di Alcamo gli chiedeva di difenderlo da una ragioniera che truccava le fatture («Perché voi sapete della mia onestà»); un'aristocratica blasonata l'implorava di far fuori - in qualche modo - il proprio amministratore infido; un intero condominio della Palermo borghese e residenziale lo chiamava a mediare su un accordo per il rifacimento del prospetto.
Amministratore di giustizia diffusa, l'industriale della protezione si dava da fare, dunque, in tanti piccoli affari minuti, oltre che governare attraverso messaggeri e prestanome pilotati a colpi di pizzini, il ''tavolo'' regionale degli appalti e degli affari, seppur nella latitanza. Che dura effettivamente da un periodo abbastanza ristretto di anni, perché i poliziotti hanno cominciato a cercarlo più o meno seriamente non prima del 1990, quando emigrò provvisoriamente in Germania dove crebbe i suoi figlioli e li fece studiare.

Dal 1963, consegnato all'icona giovanile, fresca di barbiere, riprodotta nel cartellino segnaletico n. 36754, ''latitava'' probabilmente proprio nella sua Corleone, a due passi dalla quale ieri finalmente l'hanno acciuffato, come a chiudere un ciclo segnato dalla impunità. Lui rispondeva - pizzino su pizzino - ai suoi corrispondenti, e impartiva consigli molto simili a ordini perentori, sempre più solenne, puntuale e cerimonioso: «Vi benedica il Signore e vi protegga», oppure: «Deve prevalere il buonsenso», o anche: «Non condivido che se uno fa le promesse, non le mantiene», e ancora: «Con il Suo (di Dio, ndr) volere spero di incontrarvi». E nel frattempo trafficava con pezzi dello Stato e di malapolitica per portare avanti la battaglia del ''suo popolo'' contro l'ergastolo, il carcere duro, e la legislazione sui collaboratori di giustizia: favori, norme e leggi poi in parte ottenuti, per vanificare inchieste, processi, confische e sequestri di beni.
Eppure Luciano Liggio, il suo vecchio capo, ricordando i gloriosi anni 50, quando questa terribile nidiata crebbe sotto l'ala del dottor Michele Navarra - direttore di ospedale, capoelettore democristiano, assassino - riteneva, tra i suoi seguaci, un certo Binnu Provenzano bravo solo a sparare, e un certo Totò Riina il più equilibrato. Ucciso il vecchio padrino, il terzetto calò a Palermo, ed erano gli anni 60 del secolo scorso. Lo raccontarono i primi ''pentiti'': i grandi mafiosi palermitani si ritrovarono tra i piedi quasi all'improvviso, come pericolosi concorrenti o altrettanto rischiosi alleati, un sempre più ingombrante stuolo di boss viddani (contadini) provenienti da quel paesotto arroccato sulle montagne dell'entroterra, Corleone, nell'antichità originario - ma non ditelo a Bossi - di una antica colonia lombarda. E per loro, per i mafiosi di città, fu una vera sorpresa il fulminante scatto di carriera criminale che un intero gruppo, coeso e segnato da questa comune origine, stava compiendo. Una cosa inaspettata, i corleonesi. Che sconvolse vecchi equilibri. E riprodusse in vitro quell'attitudine che la mafia cittadina aveva sviluppato dalla notte dei tempi: alternare sangue e relazioni, impiantarsi in mezzo alla società e alla politica, imbracciando con la stessa disinvoltura armi e schede elettorali.

In un gioco di specchi, dunque, il negoziatore Provenzano, che sembrerebbe tutto l'opposto di ''Totò la belva'', leader corleonese della stagione delle stragi, ha collezionato un numero di ergastoli eguale ed è sanguinario altrettanto quanto il fratello gemello. Che - tra l'altro, si dice, ma non si potrà mai dimostrare - fu proprio lui Provenzano, a consegnare alla giustizia nella precedente puntata di questa tragica telenovela di catture e poco duraturi ''trionfi'' dello Stato contro l'anti-Stato. E un compaesano amico di Provenzano, che funzionò pere decenni da protesi politica del gruppo, l'ex-sindaco di Palermo Vito Ciancimino, allacciò anche rapporti con qualche agente segreto per una non troppo misteriosa ''trattativa''.
Stavolta, dietro alla cattura di Provenzano non ci sarebbero, però, delatori o infami, né patteggiamenti sotterranei o tradimenti: lo sostengono gli investigatori, e quindi bisogna abbandonare per una volta il vecchio vizio dietrologico, e aspettare. Che cosa? Un nuovo fatto di sangue, che l'ex super-procuratore antimafia Pier Luigi Vigna ha appena dichiarato di temere. Cioè una ripresa dei grandi delitti e delle stragi? O il tentativo di riaccendere un altrettanto pericoloso ''negoziato'' che sacrifichi le punte più violente della strategia mafiosa, continuando a tollerare racket soffocanti, appalti truccati, piccoli e grandi affari? Un ministro del governo uscente, al suo esordio, aveva suggerito che con la mafia bisogna conviverci. E non a caso si trattava dell'ingegner Lunardi, responsabile del dicastero dei Lavori Pubblici.

Le inchieste in corso sul ''sistema Provenzano'' confermano una vecchia intuizione di Giovanni Falcone: ci dicono che nuovi manager del riciclaggio formatisi alla scuola dei grandi traffici di droga degli anni 80, si sono messi a disposizione; e che nel silenzio della mafia e nel silenzio sulla mafia che hanno caratterizzato l'ultima parte del pluriennale mandato di Provenzano al vertice di Cosa Nostra, s'è rafforzata la presa criminale sulle amministrazioni pubbliche, sui comuni, sulle attività economica e imprenditoriale. In verità, Riina con le sue bombe, e Provenzano con la sintassi pericolante dei suoi bigliettini, hanno rinnovato alternativamente tattiche e strategie, sapendo comparire e sparire e poi riapparire alla vista di un'opinione pubblica atterrita e distratta, come un fiume carsico arrossato di sangue. I loro successori, intanto, anch'essi latitanti, si sono fatte le ossa in un apprendistato ben protetto e blindato. E conseguentemente, dopo la giornata di soddisfazione e di vittoria che si è celebrata ieri - ancora una volta in quel pezzo d'Italia tra Corleone, san Giuseppe Jato e Palermo - occorrerà non abbassare la guardia. La cattura di Binnu 'u tratturi consegna, dunque, anche al prossimo governo un utilissimo promemoria.

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14 aprile 2006
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