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Il Divo

''Il potere logora chi non ce l'ha...''. Il ''divo'' Giulio secondo Paolo Sorrentino

19 maggio 2008

Noi vi consigliamo...
IL DIVO
di Paolo Sorrentino

A Roma, all'alba, mentre tutti dormono c'è un uomo che non dorme: Giulio Andreotti. Non dorme perché deve lavorare, scrivere libri, fare vita mondana e, alla fine, anche pregare. Calmo, sornione, impenertabile, in Italia, Andreotti da 40 anni 'è' il potere. All'inizio degli anni '90, senza arroganza e senza umiltà, ambiguo e rassicurante, avanza inesorabilmente verso il suo settimo mandato di Presidente del Consiglio. A quasi settanta anni fa parte di quella gerontocrazia che non ha paura di nessuno. Abituato a essere ossequiato e a vedere il timore reverenziale sul volto dei suoi interlocutori, ha un compiacimento freddo. Ama il potere, con il quale vive in simbiosi. Un potere immutabile in cui tutto, battaglie elettorali, attentati terroristici, accuse infamanti, gli scivola addosso senza lasciare traccia, lasciandolo sempre uguale a se stesso. Finché il contro potere più potente del paese, la mafia, gli dichiara guerra...

Anno 2007
Nazione Italia
Produzione Francesca Cima, Nicola Giuliano, Andrea Occhipinti, Arturo Paglia e Isabella Cocuzza per Indigo Film, Lucky Red, Parco Film 
Distribuzione Lucky Red 
Durata 110' 
Regia, Soggetto e Sceneggiatura Paolo Sorrentino
Con Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Piera Degli Esposti, Paolo Graziosi, Giulio Bosetti, Flavio Bucci, Carlo Buccirosso, Giorgio Colangeli, Alberto Cracco, Lorenzo Gioielli, Gianfelice Imparato, Massimo Popolizio, Aldo Ralli, Giovanni Vettorazzo, Fanny Ardant, Michele Placido
Fotografia Luca Bigazzi
Genere Biografico

Al cinema con Andreotti. Guardando il Divo Giulio
di Goffredo De Marchis (Repubblica.it,  15 maggio 2008)

CHI VORREBBE
riflettersi in uno specchio così pieno di sangue, di morti ammazzati, di cinismo al limite della disumanità, di cattivissime frequentazioni e allo stesso tempo di solitudine? Nessuno, nemmeno Belzebù, la "volpe", il "divo Giulio", il 7 volte presidente del Consiglio, insomma Andreotti che ha attraversato la storia d'Italia sul filo dei suoi asettici aforismi e dell'impermeabilità ha fatto la cifra del suo stare sulla scena politica.
Perciò nella saletta al Museo degli strumenti musicali a Roma si sarebbe potuto girare un altro spezzone di film, quello di Andreotti che si osserva dall'esterno attraverso gli occhi di un artista e stavolta soffre, reagisce, tutt'altro che insensibile. A modo suo è furibondo, sibila "è una mascalzonata, è cattivo, è maligno", ha persino la tentazione di alzarsi per non guardare più.
Andreotti vede Andreotti, seduto in prima fila su una poltroncina di pelle rossa, accanto solo il critico e amico Gianluigi Rondi. Guarda in una proiezione privata il film che parla di lui, che adesso è a Cannes e il 28 maggio sarà nelle sale italiane.

"Il Divo", scritto e diretto dal talentuoso regista Paolo Sorrentino (L'uomo in più, Le conseguenze dell'amore, L'amico di famiglia), racconta l'Italia dalla fine della Prima Repubblica all'inizio del processo per mafia contro l'ex premier. Un pezzo di cronaca in cui il protagonista è lui, il divo Andreotti, e intorno si muovono gli uomini della sua corrente, la moglie Livia, la segretaria Enea (solo le donne sono tratteggiate con affetto), i tantissimi morti di quegli anni, Moro, Dalla Chiesa, Ambrosoli, Falcone, Sindona, Lima. Al centro c'è Andreotti, totem di un potere assoluto, simbolo di se stesso, che si muove leggero nei labirinti anche più torbidi della politica.

La scena-clou appartiene al mondo dei sogni, è grottesca, è pura fiction. Però colpisce allo stomaco Andreotti. Toni Servillo, che lo interpreta con la testa affondata nelle spalle, la vecchia montatura degli occhiali in celluloide, le orecchie più a sventola della realtà, confessa guardando dritto nella camera. Recita i nomi dei tanti uccisi in quegli anni. Alza la voce, parla di "bombe pronte ad esplodere", spiega che "è necessario fare del male per realizzare il bene". E mentre il monologo va avanti, incalzante, la scena spazia su un camposanto ripreso in bianco e nero, le lapidi candide e ordinate, solo i fiori sono una macchia di colore.

Adesso Andreotti, quello in sala, si agita. Per un'ora buona ha seguito la proiezione immobile, il mento appoggiato alle mani di cera, la gambe incrociate. Ora le mani si staccano, si appoggiano sulle ginocchia, la sinistra colpisce forte la destra e nel buio risuona il gesto di stizza. "Questo no, questo è troppo", dice rivolto a Rondi. Andreottianamente, è furioso. Sobbalza sulla poltrona, sembra davvero che voglia alzarsi e andar via.
Quando si riaccendono le luci Andreotti non ha ancora sbollito la rabbia. Non querelerà, ma forse non perdonerà. "È molto cattivo, è una mascalzonata, direi. Cerca di rivoltare la realtà facendomi parlare con persone che non ho mai conosciuto". Per molti versi, è anche un omaggio alla sua personalità, al suo potere.
"Mah - dubita il senatore -. Si può dire che esteticamente è bello, ma a me dell'estetica non frega un bel niente". Visto da vicino, l'Andreotti arrabbiato sa anche perdere il proverbiale autocontrollo. Poi ritrovarlo. E riperderlo. "Capisco che la storia va caricata. Il regista doveva girare così. La mia vita è talmente tranquilla che ne sarebbe venuto fuori un prodotto piatto e senza pepe. Ma la mia corrente, per esempio, beh non era un giardino zoologico come la rappresenta il film. C'erano le invidie, gli scontri, gli scavalchi, la carriera, ma questa è la politica".

Il suo potere non è solo quel galleggiare sopra tutto, quel tirare a campare ricordato sullo schermo. "Il mio potere era un certa autorevolezza, un certo tipo di rapporti internazionali. Ma non ho mai avuto desiderio di arricchimento". E il cinismo? "Il cinismo non è nel mio carattere, non sono facile alla commozione, questo è vero. Ma non sono insensibile. E ne ho passate tante perché dava fastidio a molti che la Provvidenza non si fosse organizzata per togliermi dai piedi prima".
Ecco, scherza con la morte, torna se stesso, il solito. Si calma, dispensa battute: "Magari chiederò i diritti di immagine. Per darli in beneficenza, s'intende. Forse dirò a mia moglie di non vederlo, anche se lei al cinema va ancora. Cosa le racconterò stasera a casa? Sorvolerò, credo". Ma su come viene descritto il rapporto con Livia, la consorte interpretata da Anna Bonaiuto, arriva l'assoluzione per Sorrentino. La coppia nel film ha momenti d'intimità vera, quasi sensuale.
"Non sono romantico, ma le ho sempre voluto bene. Abbiamo cresciuto bene i figli, abbiamo costruito una bella famiglia". Anche la segretaria Vincenza Enea (Piera Degli Esposti) si salva. "Giusto così - dice Andreotti -. Era una brava persona, disinteressata". E gli altri personaggi? Andreotti pensa soprattutto alla "fotografia" di se stesso. Ogni tanto nel buio chiede "ma Gelli è ancora vivo?", "e Riina?".

Moro è il vero fantasma, la ferita aperta. "Non è corretto raccontare la sua morte come se ci fosse dietro qualcosa oltre le Br. La politica ci ha diviso. E le correnti, certo. Ma io e Moro ci conoscevamo da una vita, lui non voleva neanche fare politica ma studiare. È stato lui a designarmi come successore della Fuci. I giorni del suo rapimento sono stati durissimi e tornano. Anche per me". Non si considera un intoccabile: "Oggi sono senatore a vita ma per tanti anni i voti me li sono guadagnati". Qualche battuta gli serve a rientrare nel personaggio: "È un film impegnato, ma se si occupavano di qualcun altro, era meglio".
Durante la proiezione concede un solo sorriso. Quando Servillo confida a Cossiga il grande mistero della sua vita: "Non lo dire a nessuno. Sai, da ragazzo ero innamorato di Mary Gassman, la sorella di Vittorio". E forse ha ragione il film, questo è l'unico segreto che Andreotti è disposto a svelare.

Premio della Giuria e Premio per i valori tecnici al 61mo Festival di Cannes (2008)

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19 maggio 2008
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