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Il ''misero fallimento'' degli Usa in Iraq e i pericoli che incombono sugli americani sempre più odiati

21 agosto 2007

Secondo il soldato Buddhika Jayamaha e i sergenti Wesley Smith, Jeremy Roebuck, Omar Mora, Edward Sandmeier, Yance T. Gray e Jeremy Murphy, della 82esima divisione aerotrasportata dei marines americani, gli Stati Uniti in Iraq sono, di fatto, un ''esercito di occupazione'' che ha ''fallito miseramente''.
L'opinione, o meglio, la denuncia dei sette soldati Usa è stata mandata al New York Times direttamente dal fronte iracheno, che l'ha pubblicata nella pagina degli editoriali.
Secondo loro il maggior fallimento della politica americana usata nel ''Paese dei due fiumi'' è stato quello riguardante il fronte più importante nella strategia della contro-insurrezione: il miglioramento delle condizioni sociali ed economiche dell'Iraq. ''Quattro anni di occupazione - hanno scritto i soldati - e siamo venuti meno a ogni promessa, mentre abbiamo sostituito alla tirannia del partito Baath la tirannia degli integralisti islamici, delle milizie e della violenza criminale''.

I sette militari hanno comunque voluto precisare che quanto scritto al NYT è la loro personalissima opinione, motivata però dal modo con cui il conflitto in Iraq viene descritto nella stampa americana come ''sempre più sotto controllo, mentre non si parla del crescente disordine civile, politico e sociale che vediamo ogni giorno''. Anche l'affermazione che gli Stati Uniti sono sempre più in controllo dei campi di battaglia in Iraq, secondo i sette soldati, è viziata da una prospettiva americano-centrica. ''E' vero - dicono -, siamo militarmente superiori, ma i nostri successi sono sabotati da fallimenti altrove''.
Insomma, gli americani portatori di pace e democrazia non hanno fatto altro che incrementare negli ''iracheni della strada'' preoccupazioni del tipo: ''quando verrò ucciso? Come verrà ucciso?''.
La conclusione dell'editoriale è amara: ''Dobbiamo ammettere che al nostra presenza ha liberato gli iracheni dalla morsa di un tiranno, ma che li abbiamo anche defraudati dal rispetto per se stessi''. Presto - scrivono i sette - gli iracheni capiranno che ''il modo migliore di riacquistare la loro dignità è di chiamarci per quel che siamo - un esercito di occupazione - e di costringerci a fare le valigie''. E in Iraq sono già in tanti a farlo e già da parecchio tempo.

Nella speranza che la situazione irachena non diventi peggio di quanto non lo sia già adesso (dopo la strage degli attentati del 15 agosto a Ninevah, nel nord dell'Iraq, che ha causato la morte di circa 500 persone, diventa difficile pensare a qualcosa di più abominevole e nello stesso tempo si ha la certezza che qualcosa di più terribile possa pure accadere), e al di la delle convinzioni dei sette soldati americani che in prima persona vivono quotidianamente la realtà della situazione, gli Usa finalmente iniziano a pensare di lasciare l'Iraq. Infatti, nonostante il folle ottimismo di George W. Bush, forse il solo insieme al suo vice Dick Cheney a credere che nel Paese mediorentale l'esercito americano stia vincendo, nessuno crede più all'utilità della presenza americana sul fronte iracheno. Non lo crede più il Congresso che chiede dallo scorso anno ripetutamente un ritiro delle truppe, non lo crede più la Cia, il cui capo, Michael Hayden, già nel novembre scorso aveva espresso tutte le sue riserve, e ora non lo crede nemmeno la stessa Casa Bianca, che starebbe per presentare una prima ipotesi di ritiro.

A rivelarlo è stato ancora il New York Times, citando fonti militari e dell'amministrazione. Secondo il quotidiano, la Casa Bianca intende utilizzare l'atteso rapporto di metà settembre sulla situazione in Iraq per delineare una graduale riduzione delle truppe sul terreno a partire dall'anno prossimo. Il rapporto, basato sulle valutazioni del comandante militare in Iraq, generale David Petraeus, dovrà descrivere i risultati ottenuti con il ''surge'', l'invio di 130mila nuovi soldati in Iraq deciso in gennaio. Ma, a quanto si legge, la Casa Bianca punta a servirsene per contrastare la pressione dell'opinione pubblica per un rapido ritiro, mantenendo nel Paese arabo una presenza militare fino alla fine della presidenza Bush. Così ''l'anatra zoppa'', come viene chiamato da quando i democratici hanno la maggioranza al Congresso, non perderà la faccia.
Al momento, nota il New York Times, non è chiaro di quanto l'amministrazione Bush voglia ridurre la presenza militare in Iraq. Fonti ben informate affermano che il presidente deciderà solo dopo che Petraeus avrà completato il suo rapporto, presentando varie possibilità.

Intanto, secondo gli esperti statunitensi la guerra in Iraq e il sostanziale fallimento della lotta al terrorismo, hanno messo maggiormente in pericolo la vita degli americani. Il mondo per loro è meno sicuro di quanto lo fosse solo sei mesi fa. Tale tragica prospettiva è stata rivelata da un sondaggio promosso dalla rivista specializzata Foreign Policy e dal Center for American Progress. Secondo i 108 esperti consultati, entro il prossimo decennio gli Stati Uniti saranno colpiti da almeno un altro attentato in stile 11 settembre. E ciò nonostante il potenziamento delle misure di sicurezza e dell'intelligence. Gli esperti hanno risposto anche a tre domande, che hanno permesso di stilare altrettante classifiche di Paesi che costituiscono una minaccia per gli Stati Uniti. Al quesito su ''quale Paese sarà il prossimo probabile baluardo di al Qaeda?'' il 35 per cento degli intervistati ha risposto il Pakistan, ma resta alta l'attenzione sull'Iraq (22%), la Somalia (11%), il Sudan (8%) e l'Afghanistan (7%). Per il 74 per cento degli esperti il Pakistan è anche il Paese che prima di altri ''potrebbe consegnare tecnologia nucleare ai terroristi nei prossimi quattro o cinque anni''. Seguono in questo caso la Corea del Nord (42%), la Russia (38%), l'Iran (31%) e gli Stati Uniti (5%). Infine il 24 per cento degli intervistati ha dato alla Russia la palma dell'''alleato di Washington meno utile alla sicurezza americana''.

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21 agosto 2007
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