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Il tesoro di papà ...

Le motivazioni della Cassazione alla conferma di condanna per Ciancimino jr: "Massimo Ciancimino era consapevole dell'illecita provenienza del patrimonio di suo padre"

05 novembre 2011

Ciancimino Jr è sempre stato "perfettamente consapevole della illecita provenienza del patrimonio paterno" e ha esercitato un "ruolo esecutivo negli affari del padre", l'ex sindaco di Palermo Vito, sin da quando aveva "appena venti anni".
La Cassazione spiega così il perché, lo scorso 5 ottobre, tra prescrizioni per la metà dei reati e annullamento senza rinvio per la sentenza d'appello relativa al capo di imputazione per l'intestazione fittizia dei beni, pur abbassando le condanne in relazione alla vicenda legata al tesoro di Ciancimino (LEGGI), ha confermato la condanna per riciclaggio nei confronti di Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco di Palermo.

In uno dei passaggi delle motivazioni la Cassazione scrive: "Dell'origine e trasformazione del patrimonio del padre, Massimo Ciancimino era perfettamente a conoscenza, e non certo da epoche recenti, visto che già dal 1984, appena ventenne, venne impiegato proprio dal padre 'per trasferire somme di denaro contante in libretti al portatore nelle mani di un altro prestanome, Di Trapani Josafat, condannato con la sentenza del 1992 per favoreggiamento reale verso Vito Ciancimino"
In particolare, la Seconda sezione penale relaziona sul fatto che la "perfetta consapevolezza di Massimo Ciancimino della illecita provenienza del patrimonio paterno, frutto, fra l'altro, del contestato meccanismo di 'camuffamento' posto in essere dal 'de cuius' (il padre Vito) assieme a Gianni Lapis rende, anche sul piano soggettivo, i relativi beni illeciti per origine e come tali suscettibili delle condotte di riciclaggio e di reimpiego poste a base della contestazione, senza che possa in alcun modo venire in discorso il tema della obbligazione naturale".
Gli 'ermellini' ricostruiscono così la vicenda: "lo sviluppo delle varie vicende societarie è riguardato dai giudici di merito come coerente evoluzione di un unico disegno: vale a dire quello di fare sì che l'ingente patrimonio accumulato da Vito Ciancimino, avvalendosi, oltre che della propria carica pubblica, anche dei suoi conclamati rapporti con esponenti di vertice di Cosa Nostra dell'ala Corleonese, fosse mantenuto e messo a frutto al riparo di fin troppo prevedibili, ed in parte già realizzatesi, misure di prevenzione, correlate al fatto che quelle disponibilita' economiche si rivelavano per quantità e 'storia', di origine illecita e, dunque, da occultare".

La Seconda Sezione Penale, aveva anche annullato senza rinvio la condanna ad un anno inflitta in Appello a Epifania Scardino, madre di Ciancimino, imputata anche lei di fittizia intestazione di beni, reato dichiarato prescritto. Mentre uno sconto di pena (due anni e otto mesi contro i cinque dell’appello) è stato fatto al tributarista Gianni Lapis, che rispondeva di intestazione fittizia di beni (accusa prescritta) e tentata estorsione ai danni degli eredi di uno dei soci di don Vito.
"La sentenza impugnata – ha scritto ancora la Cassazione – ha posto in risalto i vari passaggi societari che si sono succeduti fino alla morte di Vito Ciancimino, tutti caratterizzati da vorticosi trasferimenti di quote coinvolgenti i familiari dello stesso Lapis, rimasto vero dominus, nonché i Campodonico, definiti anch'essi longa manus del medesimo Lapis, al quale era direttamente riferibile la formale gestione dei conti esteri, quale il conto Mignon. La presenza occulta di Vito Ciancimino prima e Massimo Ciancimino, dopo la sua morte, si spiega solo con l'esigenza di rendere non tracciabile la genesi della provvista poi confluita nel 'gruppo Gas' e dunque sottrarre beni che avevano raggiunto una notevole consistenza dagli altrimenti scontati interventi in tema di misure di prevenzione patrimoniale in base alla legislazione antimafia".

La Corte ha confermato anche la confisca a Ciancimino di beni per 60 milioni di euro riconducibili, secondo l'accusa, al tesoro illecito accumulato dal padre, e questo nonostante la prescrizione, perché "l'illecita provenienza dei beni sottoposti a confisca risulta definitivamente cristallizzata al punto da vanificare la stessa presunzione di non colpevolezza".

[Informazioni tratte da Adnkronos/Ign, ANSA]

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05 novembre 2011
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