In memore del ceffone. Giustizia pubblica e ''giustizia'' privata sull'educazione dei figli
''Figlio mio se ti do' uno schiaffo non mandarmi in galera''
Al minaccioso mestolo di legno, sventolato come vessillo di giustizia dal pater o dalla mater familias, si è sostituito il "NO che fa bene" rivolto al pargolo con voce ferma ma comprensiva, e alla ciabatta furente, il ragionamento pacato e l’analisi comportamentale dell’intero nucleo familiare.
In un fatto di cronaca recentemente avvenuto, però, si viene a sapere che non commette il grave reato di maltrattamento in famiglia, il padre severo che a di fronte alle intemperanze di una figlia poco incline a rispettare le regole si lascia andare a reazioni scomposte, fatte di rimproveri (magari pesanti) e talvolta anche di schiaffoni.
Anche se, certo, gli si può contestare l’ingiuria e le percosse.
La Cassazione, che certo non esprime un giudizio di tipo morale, in punta di diritto interviene su un caso specifico e spiega: si tratta di un esercizio improprio da parte del genitori del cosi detto ''ius corrigenti'' che va valutato nello specifico contesto in cui è maturato.
Il caso è quello di Giuseppe C., padre siciliano condannato a 8 mesi di reclusione con la sospensione condizionale della pena.
A lui è capitato spesso di perdere la pazienza, con insulti minacce e talora botte, di fronte agli atteggiamenti della figlia, ragazza della condotta non proprio esemplare e insensibile al rispetto di qualunque regola di vita che indicava il padre, con il desiderio di tirar tardi la notte.
Un tipico conflitto generazionale che ha indotto stavolta la ragazza a denunciare il padre . Nessuna prova però di maltrattamenti ravvisava la Suprema Corte che ha annullato definitivamente la condanna inflitta a Giuseppe C.