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Cronisti della guerra siciliana. Intimidazioni della mafia al giornalista dell'Ansa Lirio Abbate

06 settembre 2007

Fare il giornalista in Sicilia può essere molto pericoloso. A volte può essere molto più insidioso che essere inviato di guerra, perché se vieni mandato in Iraq bene o male puoi sapere dove e quali sono le minacce, i pericoli, ma non capiterà che qualcuno ti spedisca una lettera senza mittente dove è stata decisa la data della tua morte, o quella di un tuo caro. In Sicilia fare il giornalista, il bravo giornalista, può significare saltare in aria aprendo lo sportello della macchina, trovare davanti alla porta teste di capretti mozzati, essere costretto a camminare sotto scorta. Può significare perdere la libertà perché si è cercata la verità, perché si è voluto conoscere quali sono i fatti veri dietro alla realtà che ci circonda e questi condividerli con tutti affinché si possa vivere con maggiore consapevolezza e ambire ad una vita onesta e normale.
In Sicilia la mafia ha reso il mestiere del giornalista uno dei lavori più pericolosi che si possono fare, e se si ha la testardaggine di volerlo fare per forza, e volerlo fare al meglio, nello stesso tempo si deve allora essere coscienti che domani nella cassetta delle lettere potrai trovare una busta contenete dei proiettili, o peggio, un ordigno sotto la macchina.

Proprio come è successo a Lirio Abbate, cronista dell'Ansa, che con le sue inchieste ha fatto arrabbiare la mafia più e più volte. Sì perché Abbate è uno di quei giornalisti che crede fermamente che se vuoi fare il giornalista lo si deve fare bene altrimenti non ha senso, e in Sicilia fare un buon lavoro da cronista significa scavare nel marcio e scoprire quello che tutti sospettano e sanno, e trovare il coraggio di mettere i fatti nero su bianco non soltanto sulle pagine di un quotidiano ma anche dentro un libro. A Lirio Abbate qualche tempo fa è arrivata una lettera di un ''amico'' che lo avvertiva di stare attento. La risposta del giornalista è stata quella di scrivere e pubblicare insieme a Peter Gomez, un suo collega fatto della stessa pasta, il libro intitolato ''I complici: tutti gli uomini di Provenzano da Corleone al Parlamento'', che ricostruisce la fitta rete di complicità fra la società degli imprenditori, dei politici, degli uomini importanti e la mafia. Un libro ''sconveniente'' per certuni e ''pericoloso'' per lui.
Quella lettera allora Lirio Abbate ha fatto finta di non capirla, hanno pensato gli uomini delle cosche, e per punirlo gli hanno messo una bomba sotto l'auto. Quella bomba, per fortuna non è scoppiata, però adesso Lirio Abbate vive sotto scorta, e il preoccupato pensiero alla sua compagna e alla figlia di appena dieci mesi rende la vita un inferno. Ma lui non vuole cedere alle minacce della mafia, perché non avrebbe senso. E' un giornalista Lirio Abbate, di quelli seri, ed è un siciliano di quelli onesti.
  
A lui ha scritto il Consigliere del Presidente della Repubblica per la stampa e l'informazione, Pasquale Cascella, riferendogli che il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, è stato ''colpito'' dal fatto di aver scelto ''di non cedere alle minacce e alle intimidazioni della mafia'' e gli esprime ''i suoi sentimenti di solidarietà e di augurio''. ''Il Presidente della Repubblica è rimasto colpito dal richiamo e dal suo appello perché sia 'tenuta sempre alta la guardia, con la più efficace mobilitazione dello Stato e della società civile'. E' questa espressione di dignità e di partecipazione al necessario sforzo di tutti - dalle istituzioni e le strutture dello Stato alle organizzazioni politiche e alle espressioni più vive della società - per garantire le legalità, la sicurezza e la giustizia contro ogni minaccia e violenza della criminalità organizzata''.

Sabato a Palermo i giornalisti hanno organizzato una manifestazione per esprimere tutta la loro vicinanza al collega. Gli ex colleghi del Giornale di Sicilia vogliono essere ''fisicamente vicini'' a Lirio Abbate, che nel giornale palermitano è cresciuto. ''Di fronte alla nuova, pesantissima intimidazione da lui subita - hanno detto i giornalisti del GdS - invitano tutti i colleghi palermitani, di tutte le redazioni, a una mobilitazione reale, sia nell'esercizio sempre più scrupoloso, rigoroso e attento della professione, sia nell'accompagnare Lirio per le vie di Palermo, in una 'passeggiata' simbolica da intendere come richiamo contro le intimidazioni e per ricordare che i giornalisti siciliani non si sono mai piegati, di fronte alla violenza mafiosa, e non si piegheranno mai''. ''Il messaggio che vogliamo lanciare - hanno concluso - è che dietro Lirio e con Lirio siamo in tanti: lui non tacerà, continuerà il suo lavoro in questa città, nè taceremo noi''.
L'appuntamento, cui aderisce anche la segreteria provinciale dell'Assostampa, è fissato per le 10,30 di sabato 8 settembre a piazza Croci. ''Non sarà un corteo - spiegano il giornalisti del Giornale di Sicilia -, non fermeremo il traffico, ma più siamo e meglio è. Ognuno si presenti con la copia di uno o più giornali: sono queste le nostre armi, le armi di una scorta fatta di notizie, di idee e di sacrificio personale e quotidiano''. [F.M.]

''Sotto scorta in una Sicilia senza onore''
di Giuseppe D'Avanzo (la Repubblica, 5 settembre 2007)

Dice Lirio Abbate che il lavoro di cronista a Palermo o è accurato o non è. Lirio ha 37 anni, è redattore all'Ansa. Come tutti i siciliani ''buoni'', come tutti i siciliani migliori, non è portato a far gruppo, a stabilire solidarietà e a stabilirvisi. Sono i siciliani peggiori quelli che hanno il genio del gruppo, della ''cosca'', ricordava Sciascia. Sarà per questo, che Lirio se ne sta per conto suo e segue la sua strada anche se sa bene quale sarebbe il modo più conveniente per starsene in ombra, un po' in disparte e in pace. Puoi sempre scivolare lento sulla superficie dei fatti e quindi ''prendere atto'': prendere atto che quello è indagato per mafia; che quell'altro è stato rinviato a giudizio; che quell'altro ancora è sotto processo per favoreggiamento alle cosche; che la magistratura sempre ''indaga a 360 gradi''.
Nessuno te ne vorrà. E' il tuo lavoro e se fai il tuo lavoro con prudenza, senza eccessi, con mediocrità, nessuno salterà su contro di te. Però, dice Lirio, che ha una compagna e un bimba di dieci mesi, questo lavoro non è accurato, non è onesto perché non racconta quel che vede e sa: ''Io so, noi sappiamo chi sono i mafiosi e gli amici dei mafiosi o i loro protettori. Non ho, non abbiamo bisogno di attendere una sentenza o la parola della Cassazione o un'inchiesta giudiziaria perché penso che, prima della responsabilità penale, sempre eventuale, ci sia una responsabilità sociale e politica accertabile. Se il deputato, il consigliere regionale, l'assessore, il primario, il professore universitario se ne vanno in giro con il mafioso è un fatto. Si conoscono, passeggiano sottobraccio, si baciano quando s'incontrano. E' soltanto accuratezza non rinviare ai tempi di una sentenza quel racconto. E' il mio lavoro dirlo ora, subito. Non sono una testa calda, non sono un estremista, sono un cronista e credo che il mio impegno sia stretto in poche parole: raccontare quel che posso documentare''.

Deve essere questa convinzione che ha fottuto Lirio. Alla vigilia delle elezioni amministrative (maggio 2007), il suo metodo di lavoro deve aver messo di cattivo umore qualche capintesta moralmente opaco. La sua certosina ostinazione a ricostruire la rete di complicità ''borghesi'' che, per 43 anni, ha custodito la latitanza di Bernardo Provenzano non deve aver migliorato l'umore di altri. Un giorno lo chiamano in questura e gli dicono che ''non si deve preoccupare, ma che sarà protetto con discrezione''. Lirio si preoccupa, altroché. Cerca di capire. Capisce che sono in corso delle intercettazioni nel quartiere mafiosissimo di Brancaccio e in quelle conversazioni è saltato fuori che occorrono delle armi per fare ''una sorpresa a quel rompicoglioni''. Dice Lirio che, in quei momenti, quel che ti sta accadendo ti appare del tutto sproporzionato. ''In fondo, sei consapevole che il tuo lavoro, per quanto meticoloso e accurato, nella migliori delle ipotesi si avvicina, senza svelarla, all'autentica realtà delle cose. Ti chiedi qual è stata la frase, il dettaglio, il nome che può avere inquietato e non sai dirlo. Puoi forse immaginarlo, non averne la certezza. Così vai avanti. Fingi che non sia accaduto niente. Tieni per te l'angoscia, senza rovesciarla su chi ti è accanto. Tanto passerà''.
Non passa invece. Un giorno Lirio trova sulla sua auto ''la lettera di un amico''. Lo invita ''a stare attento''. In questura dicono che la minaccia è ''molto seria'', che una scorta armata lo seguirà passo passo durante il giorno. Per un cronista andarsene in giro con uomini armati è molto buffo. Il lavoro ne è irrimediabilmente pregiudicato. Quale ''fonte'' accetterà di incontrarti? Quale fonte ti confermerà quel che non potrebbe confermarti? Devi fermarti all'ufficialità, al ''prendere atto''. Dice Lirio che anche per questo, con la direzione dell'Ansa, decide di ''staccare'', di venir via dalla Sicilia, di starsene qualche mese a Roma, nella redazione centrale.

Lirio è tornato a Palermo soltanto dieci giorni fa e quelli subito si sono fatti sotto. Nella notte gli hanno sistemato una bomba incendiaria sotto l'auto. Il quartiere della Kalsa bloccato per ore. Polizia a sigillare la zona; artificieri per disattivare l'ordigno; vigili del fuoco preparati al peggio; carri dei vigili urbani per spostare in fretta le auto che davano impiccio e, nei giorni successivi, il silenzio di Palermo. Un silenzio freddo, scrupoloso, amaro che lo imprigiona come in una bolla d'aria. Dice Lirio che non vuole parlare di ''solitudine'' perché gli sembra retorico e inesatto: se ne vergognerebbe.
''In quel che mi accade'' sostiene Lirio ''mi sento fortunato. Sento accanto a me l'amichevole presenza dei miei colleghi di redazione. La direzione dell'Ansa è premurosa. Polizia e magistratura di più non potrebbero fare per rassicurarmi. Ma, se si esclude questo cerchio protettivo, avverto l'indifferenza della città. Un sindacato di giornalisti ha diffuso un comunicato in cui si diceva, più o meno, che - è vero - Lirio Abbate è minacciato, ma è un affare che riguarda soltanto lui perché - tranquilli - i cronisti siciliani non corrono alcun pericolo. Si può? Quest'incomprensione collettiva è un grumo di veleno e di amarezza che aggrava l'angoscia peggio della minaccia di quei vigliacchi e non parlo di me soltanto, parlo delle decine di casi che, come il mio, si consumano ogni giorno in città, nell'indifferenza di una Palermo muta che quotidianamente 'prende atto' di negozi bruciati dagli estorsori che non risparmiano i piccoli e piccolissimi esercizi e finanche i distributori di benzina. Una città dove, se ti portano via l'auto o la moto, sai a chi puoi rivolgerti - tutti sanno chi è il mafioso del quartiere - per fartela restituire dietro il pagamento di una cauzione, così la chiamano. E' vero, l'iniziativa di Confindustria è straordinaria. Erano dodici anni che le associazioni antiracket invocavano un gesto, un passo deciso. Ora c'è una promessa. Vedremo con il tempo se alle parole seguiranno i fatti. Però, perché prima di mandar via chi paga il pizzo non si comincia a mettere fuori da Confindustria l'imprenditore condannato per mafia? Ce ne sono. Basta guardare a Caltanissetta''.

Dice Lirio che hanno ragione il capo dello Stato e il governo a chiedere che ''la società civile'' faccia la sua parte contro la mafia. E' la parte del problema con cui egli sente di dover fare più dolorosamente i conti, oggi. ''E' un paradosso. Credi di dover fare in modo accurato il tuo lavoro di cronista per illuminare nell'interesse dell'opinione pubblica, di quella ''società civile'', gli angoli bui e sporchi del cortile di casa. Poi scopri che sei un ingenuo. Nessuno vuole guardare da quella parte, in quegli angoli - no - preferiscono voltarsi da un'altra parte anche se stai lì a tirargli la giacchetta. E allora perché lo faccio?, ti chiedi. Perché infliggo a chi mi è caro ansia, paura, apprensione e, Dio non voglia, pericoli? Perché, mi chiedo, non ascolti chi ti dice: ma chi te lo fa fare, vattene da qui, vattene subito, non ti accorgi che non vale la pena?''.
La voce di Lirio sembra rompersi ora. Percettibilmente, il timbro diventa roco e trattenuto come di chi si sta sforzando di controllare un'emozione che forse è rabbia, forse è avvilimento o forse entrambe le cose. Dopo qualche secondo, Lirio dice finalmente: ''Lo sai perché non decido di andarmene? Per onore. Sì, per onore! Non per il mostruoso, folle, ridicolo onore di cui si riempiono la bocca mafiosi deboli con i forti e forti con i più deboli, ma per quell'onore che mi chiede di avere rispetto di me stesso, che mi impedisce di inchinarmi alla forza e alla paura, di scendere a patti con ciò che disprezzo. Quell'onore che molti siciliani hanno dimenticato di coltivare''.

 

 

 

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06 settembre 2007
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