In the World
L'America di Bush e le decisioni del G8: fra annunciate lotte alla povertà e continue lotte contro il terrorismo
Gli equlibri dell'intero pianeta stanno nelle mani di pochi. Questi si contano in 8, e in questi giorni riuniti in Scozia, creeranno compromessi ad hoc affinché i confini di questi equilibri sembreranno ricevere un assetto migliorativo. Principalmente però, tutti e 8 faranno massima attenzione all'integrità della propria economia ed eviteranno che si sacrifichi la propria ricchezza.
Nelle mani dell'America, che fra le 8 potenze è quella con la quale tutti i paesi del mondo devono fare i conti, si concentrano la maggior parte delle decisioni che il G8 scozzese relazionerà domani alla platea mondiale. Nelle mani dell'America ci sono i sì e i no, le possibilità e le stroncature.
Mentre continua ad imperversare la guerra in Iraq e il prezzo del greggio aumenta inusitatamente, George W. Bush a Gleneagles detta condizioni, lasciando poche possibilità di replica agli altri sette leader del G8. ''Il nostro obiettivo è di tagliare entro il 2010 i sussidi di Ue e Stati Uniti agli agricoltori'', ha dichiarato il presidente degli Stati Uniti al termine dell'incontro bilaterale avuto con il premier britannico Tony Blair nell'ambito del vertice3 del G8. E' una svolta importante quella del presidente americano, che permetterebbe di aiutare in maniera strutturale i Paesi del Terzo Mondo attualmente penalizzati nell'esportazione dei prodotti agricoli dagli aiuti di Stato all'agricoltura voluti dai Paesi ricchi.
Bush, è intervenuto anche sui temi dell'ambiente, spiegando che è il momento di andare oltre Kyoto e fare una diversa politica contro l'inquinamento. Una posizione questa dettatata già prima dell'inizio del summit e che l'Europa non condivide dichichiarando, per bocca di Blair (presidente di turno dell'Ue e del G8) che le ''divergenze'' sul clima e le politiche per combattere il global warming del pianeta ''non saranno risolte'' nel corso del summit scozzese.
Quindi, pur rimanendo inflessibile sul fronte ambiente, l'America sembra propositiva per quel che riguarda la lotta all'indigenza dei paesi poveri, soprattutto per quelli africani. Propositività che stride terribilmente con la situazione irachena, luogo dove gli Stati Uniti non invieranno altre truppe ma dal quale non si ritireranno tanto presto.
Sono state infatti chiare le dichiarazioni di George W.Bush, parlando prima a Fort Bragg, in occasione del primo anniversario del passaggio dei poteri dalle forze americane al governo provvisorio di Bagdad, e poi durante il discorso per la Festa dell'indipendenza del 4 Luglio: ''Le truppe statunitensi non resteranno in Iraq un giorno più del necessario, ma sarebbe un errore fissare scadenze precise''.
Secondo Bush, l'Iraq rimane infatti il fronte centrale della guerra contro il terrorismo: ''La nostra missione in Iraq è chiara: dare la caccia ai terroristi, aiutare gli iracheni a costruire una nazione libera, far avanzare la causa della libertà nel resto del Medio Oriente''. ''Dobbiamo impedire ad Al Qaeda e agli altri terroristi stranieri di trasformare l'Iraq in quello che l'Afghanistan era diventato sotto i talebani: un rifugio sicuro da cui lanciare attacchi contro l'America e i suoi amici. Il modo migliore per completare questa missione è aiutare gli iracheni a edificare una nazione libera, in grado di governarsi, sostenersi e difendersi''.''Stiamo combattendo contro uomini che sono capaci di qualsiasi atrocità - ha detto Bush - e che desiderano attaccare il nostro paese e uccidere i nostri cittadini e in Iraq è dove hanno deciso di formare il fronte. Li combatteremo, in Iraq e in tutto il mondo, e continueremo a combattere finché vinceremo''.
Diventano quindi due le grandi battaglie delle quali l'America di Bush si è presa la responsabilità: quella per sconfiggere il terrorismo e quella per abbattere la povertà, due elementi presenti in Iraq in maniera endemica.
E mentre l'Iraq viene quotidianamente martirizzata dagli attacchi kamikaze e gli stenti sfiancano indicibilmente la popolazione, l'arrivo della ''normalizzazione'' lastricata di morti e la presenza costante dell'esercito americano nel paese finora hanno riportato solamente uno pseudo simbolo di libertà, bandito dalla Lega Araba nel 1968 per boicottare i rapporti d'affari con Israele: la Coca Cola.
Il ritiro della Coca Cola nel '68 lasciò campo libero alla Pepsi e anche quando nel 1991 il boicottaggio della bevanda terminò, la guerra nel Golfo e le sanzioni impedirono alla multinazionale di tornare in Iraq. Ora il colosso Usa può rientrare a testa alta nel mercato grazie a un accordo con la società turca Efes Invest, e la sua partner irachena HMBS, che imbottiglierà la Coca Cola in Dubai e la distribuirà poi in Iraq.
A Bagdad la notizia del ritorno della Coca Cola è stata accolta con sentimenti contrastanti. Secondo Abbas Salih, rivenditore all'ingrosso di bibite, sarà un fallimento. ''La Coca Cola fa affari con gente che spara ai nostri fratelli in Palestina. Come possiamo berla?'' ha detto Salih. ''Se si mette una lattina di Coca Cola davanti allo specchio, nel logo si legge la frase 'No Allah' o 'No Maometto', non ricordo quale delle due'' ha osservato Abu Ream, proprietario di un negozio di alimentari nella capitale irachena, che però prevede che Coca Cola vincerà la 'guerra' con Pepsi, perché la gente a Bagdad, ha spiegato, ama la novità.