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L'IMPRESA MIGRANTE

In Italia sono ben 165.000 le imprese appartenenti ad immigrati. Sette su dieci hanno un conto in banca

25 febbraio 2009

Sono 165.000 le aziende degli immigrati in Italia. Le attività che svolgono sono le più diverse: agricoltori e allevatori di bestiame, anche se in agricoltura sono in tutta Italia appena 2.500 gli imprenditori stranieri, in ragione degli alti costi iniziali che comporta la rilevazione dei poderi. Come risaputo, dopo l'edilizia che rimane il settore prevalente, gli immigrati sono inseriti specialmente nel commercio: abbigliamento, artigianato, articoli sportivi, cosmetici, settore alimentare, ma non solo per la vendita di prodotti etnici, anche se questi ricordano agli immigrati i paesi di origine e le loro tradizioni culinarie.
Insomma, chi è rimasto legato all'immagine stereotipata dei 'vu cumprà', che dal Meridione si spostavano stagionalmente al Nord e sulla riviera romagnola, deve oggi prendere atto che ormai si tratta in prevalenza di titolari di negozi fissi, al dettaglio e spesso anche all'ingrosso.

I dati sono contenuti nel volume 'Immigrati imprenditori in Italia' voluto dalla Fondazione Ethnoland, nata per promuovere culturalmente ed economicamente la collettività immigrata, che ha realizzato la ricerca con il supporto dei redattori del "Dossier Statistico Immigrazione Caritas/Migrantes" e il contributo di strutture e organizzazioni che si occupano del fenomeno migratorio secondo l'ottica imprenditoriale.

Non manca chi si occupa di procacciare affari specialmente nel settore abitativo, che rimane tuttora uno dei più complessi problemi sulla via dell'inserimento. E' incipiente la voglia di misurarsi anche in campi più "raffinati", come piccole case di moda, negozi di artigianato o laboratori odontotecnici.
Nel volume si parla anche delle macellerie islamiche, che si distinguono per la particolare maniera con cui vengono macellati gli animali, tenendo perciò conto delle prescrizioni contenute nel Corano che coincidono, peraltro, con quelle alle quali si attengono gli ebrei sulla base della Bibbia. Si tratta per lo più di piccole aziende, dove in un gran numero di casi lavora in maniera continuativa solo il titolare, ma diventano sempre più numerose quelle che occupano anche altre persone: una dozzina, inclusi gli italiani, sono quelli che lavorano per l'imprenditore turco che rifornisce il Kebab a Milano, molti di più quelli che lavorano nel laboratorio tessile del cinese Lin a Prato, che gestisce sei marchi di abbigliamento, ha aperto una filiale a Shangai con qualche centinaio di operai e si sta occupando di favorire il nostro export in quel Paese. Anche a Napoli sono diverse le iniziative di import-export con la Cina.
Le imprese cooperative, poi, partono fin dall'inizio con un certo di numero di persone associate: viene citato l'esempio di "Ghanacoop", che con la commercializzazione dei prodotti del posto è riuscita a creare lavoro non solo in Italia ma anche in Ghana.

Sono diversi i motivi che hanno spinto gli immigrati alla scelta di natura imprenditoriale, che è ben lontana dai toni assistenziali con i quali siamo soliti inquadrarli. Così come fanno nel lavoro dipendente, dove incidono quasi per il 10%, negli ultimi anni essi stanno dimostrando un notevole dinamismo come creatori di aziende, nonostante la negatività dell'attuale congiuntura economica.
Secondo una ricerca Abi-Cespi, poi, su dieci imprenditori 7 sono clienti delle banche. I dati sul territorio tracciano un quadro più preciso. A Perugia e Milano sono 9 su 10. A Brescia 8 e a Roma poco più di 7, mentre a Palermo sono 4 su 10. A Palermo il 30% degli occupati è imprenditore, a Brescia circa il 6%. Emergono forti differenze nella percentuale d'imprenditori presenti nel campione dei diversi territori analizzati.
A Palermo il quadro è molto interessante. Spiccano la rilevanza del commercio, la crescita del lavoro domestico e una occupazione contenuta nel comparto industriale. Un altro elemento che contribuisce a spiegare l'elevato numero di imprenditori a Palermo è collegato alle nazionalità intervistate: nel campione erano inclusi bangladesi, molto impiegati nel settore del commercio e servizi, e marocchini, in molti casi commercianti ambulanti attivi nei mercati rionali.
A Brescia, i lavoratori autonomi immigrati sono il 5,6%, e ciò anche se il tessuto industriale è più sviluppato, sia in termini di piccola e media impresa che di aziende di maggiori dimensioni. D'altra parte, nel campione bresciano è predominante il lavoro dipendente, soprattutto nell'industria (oltre il 46% degli occupati).

Oltre al territorio di residenza, il luogo d'origine e il genere fanno l'imprenditore. E così sulla base della variabile nazionale, spicca l'alta propensione all'imprenditorialità della comunità cinese (33% circa degli imprenditori, rispetto al totale dei cinesi inetrvistati), seguita in questa classifica dal dato relativo ai bangladesi (20%) e marocchini (18%). Nel campione è invece basso il livello di lavoratori autonomi tra albanesi (5%), ecuadoriani (6,6%), filippini (circa 7%) e ghanesi (7,6%). In posizione intermedia si situano i senegalesi ed egiziani, che sfiorano il 10% di lavoratori autonomi tra gli occupati. [Adnkronos]

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25 febbraio 2009
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