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L'Iraq somiglia sempre più al Vietnam e l'amministrazione Bush trema di fronte alle elzioni di medio termine

27 ottobre 2006

Le elezione di medio termine americane sono sempre più vicine (7 novembre), e per i repubblicani dell'amministrazione Bush le cose non sembrano essere esattamente ricoperte di rose e viole. Così era pure nel periodo elettorale che confermò a capo degli Stati Uniti George W. Bush, ma è passato dell'altro tempo intanto, e la situazione irachena, pesa sempre più gravemente sulla testa dei Repubblicans.
Ultimo tentativo di Bush, per  arginare la perdita di consensi, il cambiamento di rotta in Iraq ma al contempo la conferma degli obiettivi di politica estera della sua amministrazione. Bush riconosce le difficoltà incontrate nella conduzione del conflitto e ha parla di strategia ''flessibile'' sollecitando maggiori sforzi da parte del governo di Bagdad, continuando comunque a sostenere la massima fiducia nel premier Nouri al Maliki.
Come dire, ''Beh, le difficoltà ci sono, magari non abbiamo fatto tutto quello che si sarebbe dovuto fare, ma la via era quella giusta''.

''I nostri obbiettivi sono immutabili, ma la nostra strategia sarà flessibile'', ha affermato il presidente degli Stati Uniti che nei giorni scorsi è stato sotto il fuoco di fila delle domande dei giornalisti durante una conferenza stampa alla Casa Bianca. ''Gli accadimenti dell'ultimo mese sono stati motivo di grande preoccupazione per me e per il popolo americano'', ha ammesso. Solo nel mese di ottobre ''abbiamo perso 93 soldati''. Da quando l'Iraq è stato invaso, ''alcuni sviluppi sono incoraggianti, come la cattura di Saddam Hussein'', ha detto, ''altri non sono incoraggianti''. Eppure, ''nonostante le difficoltà e lo spargimento di sangue, resta cruciale che gli americani sconfiggano il nemico in Iraq aiutando gli iracheni a costruire un paese libero che possa reggersi sulle proprie gambe e difendersi da sè'', ha insistito Bush, non cambiando, sostanzialmente, il nocciolo della storia.
''La strada per la vittoria non è facile, non dobbiamo aspettarci una soluzione facile, ma questo non vuol dire che non ne valga la pena. La gente deve sapere che abbiamo un piano per vincere'', ha proseguito. ''Noi stiamo vincendo e vinceremo, a meno che non ce ne andiamo prima di finire il lavoro''.

Insomma, la guerra in Iraq non è stata ancora vinta, ma non bisogna disperare, dice il presidente. Certo che Bush abbia accettato il paragone della guerra in Iraq con quella del Vietnam non ha rinfrancato gli americani.
Da quando è iniziato il conflitto iracheno sono stati molti i paragoni fatti con la ''palude vietnamita''; a volte reali, a volte forzati, spesso inesistenti. Chi li aveva sempre rifiutati era stata la Casa Bianca, per l'amministrazione Usa un qualsiasi paragone con la guerra e l'onore perduto nelle risaie del sud-est asiatico era fuori luogo. Fino a qualche giorno fa, quando il presidente Bush ha ammesso che un'analogia esiste. In un editoriale sul New York Times Thomas Friedman aveva scritto che la vera ''sorpresa di ottobre'' era l'offensiva della Jihad in Iraq, ''equivalente all'offensiva del Tet'' (quando, nel gennaio del 1967 i guerriglieri vietcong, appoggiati dall'esercito di Ho Chi Minh, lanciarono il più grande attacco contro i militari Usa in Vietnam): che militarmente fu un fallimento ma che fu invece un grande successo di propaganda per il suo impatto emotivo sull'opinione pubblica americana, che da allora cambiò atteggiamento sulla guerra in Vietnam.
Quando George Stephanopolous, ex consigliere di Bill Clinton diventato commentatore di punta della rete televisiva Abc, ha chiesto a Bush cosa pensava delle parole di Friedman, il presidente ha risposto: ''Potrebbe essere nel giusto, c'è sicuramente un aumento del livello della violenza man mano che ci avviciniamo alle elezioni''.
La Casa Bianca ha poi precisato che il paragone non era tra le due guerre, ma solo ''con la propaganda che accompagnò l'offensiva del Tet. Il presidente ha ribadito cose che aveva già detto, che il nemico sta cercando di scuotere la nostra determinazione''. Mah, crediamo che a poco è servita la rettifica della Casa Bianca.

E, come se questo non fosse abbastanza, ci sono state anche le dichiarazioni di Alberto Fernandez, uomo di punta del Segretario di Stato Condoleezza Rice, tra i diplomatici americani che meglio conoscono la situazione nel paese del Golfo.
Fernandez , chiamato dalla Rice a dirigere il Bureau of Near Eastern Affairs del Dipartimento di Stato, l'ufficio che si occupa di tutto il Medio Oriente, in una intervista nientemeno che ad Al Jazeera, ha detto che gli Stati Uniti in Iraq hanno mostrato ''arroganza e stupidità''.
''Noi abbiamo cercato di fare il nostro meglio (in Iraq) - ha detto Fernandez alla televisione satellitare del Qatar -, ma penso che ci sia molto spazio per critiche perché, senza dubbio, c'è stata arroganza e stupidità da parte degli Stati Uniti''.
Secondo Al Jazeera - che ha diffuso nella sua versione online in lingua inglese il testo delle dichiarazioni (che Fernandez ha però rilasciato in arabo) - il diplomatico avrebbe anche sostenuto che per fermare le violenze in Iraq l'amministrazione Usa sarebbe disposta a colloqui con tutti i gruppi armati salvo Al Qaeda. Alla tv araba ha replicato il portavoce del Dipartimento di Stato, Sean McCormack, sostenendo che quanto detto da Fernandez ''non è stato riportato in modo esatto''.
Ma, anche stavolta, crediamo che la rettifica sia servita a poco.

Mancano solo undici giorni al 7 novembre. Gli americani dovranno confermare o meno la fiducia al loro presidente.
Meditate americani... meditate.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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27 ottobre 2006
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