L'uomo dell'anno
Potrà mai un comico diventare presidente degli Stati Uniti d'America?
Noi vi segnaliamo...
L'UOMO DELL'ANNO
di Barry Levinson
Chiudete bene gli occhi e provate ad immaginare...
Che la gente ormai sia stufa della politica tradizionale e dei politicanti di ogni tipo. E che non voglia più saperne di votare per i soliti noti. Non è difficile, siamo d'accordo, ma andiamo avanti.
Provate ora a immaginare uno dei comici americani più famosi, uno di quelli che alzano lo share al solo apparire in scena. Si rivolge al pubblico presente nel salotto televisivo con battute a raffica, ammiccamenti vari, potere ipnotico esercitato col sorriso sulla bocca. Tutto perfetto, se non fosse per un 'inconveniente' grosso come una casa. Una spettatrice si alza in piedi e gli suggerisce con impeto di candidarsi alla Presidenza degli Stati Uniti.
Uno scherzo, una boutade, una 'freddura'? Macché, la pura e semplice verità. Perlomeno nel cinema di Levinson che ne "L'uomo dell'anno" apre le danze proiettando Tom Dobbs sulla soglia della Casa Bianca.
Domanda impertinente: gli americani amano Dobbs? Certo che sì. Non perdono mai nemmeno una puntata del suo divertente talk show politico e si fidano di lui. Ciecamente. Bene, perché allora non votarlo per le presidenziali?
Sì, è vero, di politica realizzata 'sul campo' non ne sa poi molto, ma per imparare c'è sempre tempo. E poi nei suoi monologhi ha dato ampia dimostrazione di lungimiranza, di tatto, di intelligenza...
''L'uomo dell'anno'' scardina le fondamenta del cinema politico Usa, intavolando una riflessione tutt'altro che superficiale sulla crisi odierna della politica.
Tit. Orig. Man of the Year
Anno 2006
Nazione Stati Uniti d'America
Distribuzione Medusa
Durata 115'
Regia, soggetto e sceneggiatura Barry Levinson
Con Robin Williams, Christopher Walken, Laura Linney, Jeff Goldblum
Genere Commedia
Pensate che la politica non possa essere divertente? Robin Williams non sarebbe d'accordo...
La politica? Beh, il sogno della gente è che risolva i problemi, prendendoli di petto, lavorandoli di fino ed eliminandoli. Tutto giusto, perfetto.
E il comico? A pensarci bene non è così diverso dal politico.
Si rivolge al pubblico (lo stesso pubblico...), affronta problemi simili, con la differenza sostanziale che invece di risolverli, li cambia. Mutandoli di segno e trasformandoli in pura comicità.
I più grandi politici? Fini commedianti, di sicuro... E i comici più abili? Grandi politici, senza dubbio. Perché la politica si fa in tanti modi diversi. Uno di questi abita nelle profonde viscere dell'ironia.
Cinema, politica, commedia.
Nel cinema americano classico è una triade che ha saputo sfornare capolavori. In quello attuale latita. Sì, certo, qualche tempo fa c'è stato ''American Dreamz'', ma alla fine le opere capaci di riflettere con ironia su politica e società si contano sulle dita di una mano. Quando raccontare l'attualità più stretta si fa cosa complessa, o la si butta sul tragico o la si stempera con arguzia. La seconda cosa riesce a pochi. Dando un'occhiata al cinema americano più recente, salta all'occhio un dato preciso e ficcante. Quello relativo alla voglia di fare i conti col proprio passato, nel tentativo di tirare un bilancio del presente. O quantomeno nella speranza di capirci qualcosina in più. Se diciamo ''The Good Shepherd'', diciamo il film più significativo tra quelli affollatisi in queste retrovie negli ultimi tempi. Ma non basta. Non basta perché proprio quest'anno ci siamo imbattuti in due titoli accomunati da un sottilissimo filo rosso: quello legato alla figura del Presidente.
Fuori i nomi: ''Bobby'' e ''Death of a President''. Nel primo Estevez raccoglie l'ultimo giorno di vita di Robert Kennedy, innestando lo specchietto retrovisore e tessendo con pazienza volti, sguardi, microstorie. Tutti fiumiciattoli sfociati nel mare magnum della Storia. In ''Death of a President'' invece Gabriel Range prova a scombussolare le carte in tavole del Presente, ricostrendo l'immaginaria morte del Presidente Bush. Discutibile quanto si vuole nelle premesse, ''Death of a President'' ha di fantapoliitico solo la morte di Bush. Tutto il resto sa di cronaca attuale, di disorientamento cocente, di persone comuni che hanno perso del tutto (o quasi) la bussola della politica.
Dunque: uno sguardo indietro e uno fisso sul presente. Manca quello avanti, quello proiettato al futuro. Da oggi lo abbiamo.
Che Barry Levinson sia una delle poche certezze del cinema americano attuale, lo sapete. Quello che magari può sfuggire è che si tratta di un cineasta classico, ma al tempo stesso avveniristico. Uno di quelli che sanno coniugare come pochi attenzione allo stato di cose attuale e capacità di anticipare e di prendere in contropiede. Un regista che è stato capace di raccontare come pochi l'handicap (''Rain Man''), la luminosità arcaica della vecchia Hollywood (''Bugsy''), la guerra dei sessi in chiave erotica (''Rivelazioni'').
Nel 1997 ha incrociato il suo cammino con quello di Robert De Niro e Dustin Hoffman, ed è uscito fuori l'epocale ''Sesso e potere''.
Stavolta ci ha riprovato. Riuscendo a trasformare la politica americana nel luogo più divertente e scatenato che vi venga in mente. Per farlo ha avuto bisogno di un interprete d'eccezione. E ha richiamato lui, Robin Williams, già diretto nel mitico ''Good Morning Vietnam''. Da speaker radiofonico durante la guerra del Vietnam, a 'homo novus' della politica americana. E della risata universale.
'L'uomo dell'anno' è lui.