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La borsa di Borsellino sulla poltrona di La Barbera

Perché la borsa del giudice Paolo Borsellino venne fatta ritrovare, dopo la strage di via D'Amelio, come un oggetto qualsiasi dimenticato in un posto?

17 luglio 2014

«La borsa di Borsellino fu trovata sulla poltrona di La Barbera»
di Matilde Geraci (Rete100Passi, 15 Giugno 2014)

«Sapevamo che Borsellino aveva una borsa, ma non sapevamo dove era finita. La trovarono, abbandonata su una poltrona, a Palermo, nell’ufficio del capo della Squadra Mobile, Arnaldo La Barbera. Posso escludere che al suo interno ci fosse l’agenda rossa».
A parlare è Fausto Cardella, oggi procuratore a L’Aquila, deponendo al processo Borsellino Quater in corso a Caltanissetta; la stessa città dove nei mesi successivi alla morte del giudice Paolo Borsellino, venne applicato come sostituto procuratore per indagare sulle stragi di Capaci e via D’Amelio.

Il magistrato, rispondendo alle domande dei colleghi Gozzo e Luciani, ha ricordato anche di quando arrivò alla Procura di Caltanissetta, guidata allora da Giovanni Tinebra, insieme a Ilda Boccassini nei primissimi giorni di novembre 1992. «Io - ha riferito - già il cinque mi recai a Palermo proprio per questa storia della borsa di Borsellino. Sulla presenza nell’ufficio di La Barbera della borsa di Paolo, ne parlammo proprio con lui. Ma il capo della mobile disse che se l’era ritrovata lì e non sapeva come ci fosse arrivata. All’interno c’era sicuramente un’agenda marrone, di quelle appartenenti ai carabinieri. C’era poi un’agenda con alcuni numeri di telefono ma l’agenda rossa, di cui ne aveva parlato il maresciallo Canale, non c’era. Venne quindi avviata un’attività investigativa per verificare chi fosse presente in via D’Amelio nei momenti successivi alla strage. Cercammo di ricostruire come la borsa fosse arrivata proprio nell’ufficio di La Barbera. In quel periodo si facevano diverse ipotesi, a seguito anche di qualche esposto anonimo, circa la presenza sul luogo dell’attentato, di rappresentanti istituzionali. Lo stesso venne fatto qualcosa per l’agenda rossa ma non ricordo assolutamente fotografie o fotogrammi di agenti con in mano la borsa. Io me ne andai da Caltanissetta nel dicembre 1993 e queste cose emersero anni dopo».

Com’è noto, la scomparsa dell’agenda rossa del giudice Borsellino dal luogo della strage è avvolta da un mistero lungo ventidue anni ed è uno dei tanti tasselli ancora da chiarire all’interno del più ampio quadro della trattativa fra Stato e mafia. Altro tassello è proprio quella valigetta marrone all’interno della quale era contenuta l’agenda rossa. Valigetta che qualcuno pensò bene di tirare fuori dai rottami dell’auto di scorta del giudice, per poi "farla ritrovare", come un qualsiasi oggetto, "abbandonata" sulla poltrona di La Barbera. Su come arrivò all’ufficio dell’ex capo della Mobile vi è ancora molta confusione (basta pensare che Giuseppe Ayala, cadendo in palesi contraddizioni, ha dato negli anni ben otto versioni). Cardella ha comunque ribadito che sul ritrovamento della borsa venne avviata un’attività d’indagine per capire chi fosse presente in via D’Amelio negli attimi immediatamente successivi all’attentato e, in particolare, ricorda degli «approfondimenti investigativi sulla presenza di Bruno Contrada nel luogo della strage, cosa che poi non fu confermata». Anche Contrada, ex numero tre del Sisde, avrebbe dovuto testimoniare alla stessa udienza, ma non si è presentato per motivi di salute, a dimostrazione dei quali ha fatto pervenire un certificato medico.

«E ricordo - ha poi aggiunto il teste - che ci confrontammo anche con i colleghi di Palermo sull’omicidio del maresciallo Guazzelli (il maresciallo dei carabinieri a cui Calogero Mannino, uno degli imputati del processo trattativa, confidò subito dopo la sentenza della Cassazione sul maxiprocesso «ora uccidono me o Lima». Il 12 marzo del ’92 quest’ultimo viene freddato a Mondello, mentre il 4 aprile viene ucciso anche Guazzelli, sulla strada Agrigento-Porto Empedocle, ndr). Non pensavamo ad un collegamento diretto con la strage di via D’Amelio, ma si riteneva che potesse costituire un tassello importante per capire quel che era avvenuto. In particolare però ci concentrammo sugli ultimi giorni di vita di Paolo Borsellino, su tutta la vicenda dell’interrogatorio di Mutolo e della visita del giudice al Ministero degli Interni».

Cardella ha anche riferito circa la figura del falso pentito Salvatore Candura, arrestato nel settembre 1992 per rapina e violenza sessuale e che, pochi giorni dopo l’arresto, iniziò a parlare del furto della Fiat 126 usata come autobomba per l’attentato di via D’Amelio, facendo il nome di un altro falso pentito: Vincenzo Scarantino. È l’inizio del depistaggio. Il più grande mai commesso nel nostro Paese, fosse solo perché ha resistito per quasi vent’anni. «Quando arrivammo a Caltanissetta, noi trovammo già queste persone in cella. Sapevo che erano state arrestate inizialmente per un motivo e poi c’è stata una microspia in cella che portò ad una nuova imputazione. Non posso dire se vi fosse una strategia. Io ricordo che partecipai ad un interrogatorio a Milano di Salvatore Candura. Escludo comportamenti anomali da parte di chi era presente oltre a noi pm. Candura aveva elementi che destavano perplessità sia per la sua caratura criminale, sia per il suo rapporto di parentela con la proprietaria della 126, poi utilizzata come autobomba nella strage di via D’Amelio. Gli davamo credibilità per via della microspia che era collocata nella sua cella».
Passeranno diciassette anni perché Candura, così come Scarantino e Andriotta (il terzo finto collaboratore in questa vicenda), ammettano di aver inventato le proprie testimonianze, poiché minacciati da funzionari della polizia, in primis proprio da quel La Barbera, capo della Squadra Mobile di Palermo.

Si è parlato pure del rapporto tra quest’ultimo e Gioacchino Genchi, che all’epoca era commissario di polizia e divenuto poi consulente informatico di diverse Procure. «Improvvisamente decise di non partecipare alle indagini sulle stragi del ‘92, ma Arnaldo La Barbera non ci spiegò mai il perché di questo dietrofront, adducendo giustificazioni generiche e non del tutto convincenti», ha detto Cardella. Tale fu la sorpresa per quella improvvisa decisione dell’esperto di telecomunicazioni, presa proprio quando c’erano da vagliare migliaia di telefonate partite un’ora prima e un’ora dopo la strage (nonché effettuare i controlli sui contatti telefonici di Contrada), che inviò una nota al procuratore capo Tinebra, in comune accordo con la Boccassini. Secondo quanto riferito in aula dal teste, «alla base della scelta di Genchi, potrebbe starci un’aperta divergenza sulle piste da seguire». «Il rapporto tra questi e La Barbera si incrinò infatti quando il primo propose di indagare sui movimenti bancari e in particolare sulla carte di credito in uso al giudice Giovanni Falcone. Proposta che scartammo nella sua utilità. Ma non possiamo sapere se il motivo della sua decisione di non partecipare alle indagini sulle stragi del ’92 arrivò per questo motivo. Arnaldo La Barbera non ci spiegò mai il perché e io stesso, quando Genchi venne in Procura a parlare con me, non riuscii a capire le reali motivazioni». E anche su questo punto, i dubbi da chiarire, ancora oggi, non sono pochi.

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17 luglio 2014
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