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La difesa del generale

Processo Mori: "Accuse offensive e calunniose. Non c'è stata alcuna trattativa"

11 giugno 2013

"L'accusa rivolta ai miei ufficiali e a me di avere, 'perseguito obiettivi di politica criminale' è offensiva, in quanto gratuitamente espressa. Tale grave accusa, infatti, pronunciata in un'aula di giustizia, senza che sia sostenuta da concreti elementi di riscontro, si configura semplicemente come un calunnioso espediente dialettico, mirato a fare prevalere comunque una tesi di parte. E che questa affermazione sia infondata e di parte io non lo affermo solamente, ma lo dimostrerò con le mie dichiarazioni".
Con queste parole, nei giorni scorsi,  il generale Mario Mori ha iniziato le sue dichiarazioni spontanee nel processo che lo vede imputato per favoreggiamento aggravato, insieme con il colonnello Mauro Obinu, per la mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nel 1995.
Ad ascoltare le sue parole il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e il pm Roberto Tartaglia. Assente invece il pm Nino Di Matteo, che al termine della requisitoria aveva chiesto la pena a nove anni di carcere per Mori e sei anni e mezzo per Obinu.

"All'inizio degli anni novanta del secolo scorso, il movimento di rifiuto e contrasto alla mafia ed al suo ambito di riferimento, seguito dei successivi tragici eventi delle stragi del 1992, ha avuto un impulso più forte e convinto - ha spiegato Mori, in aula con i suoi legali Enzo Musco e Basilio Milio - Non è certo questa la sede per fare delle analisi, preme qui sottolineare solamente come, in questo ambito, sia venuta costituendosi e conformandosi sempre più nettamente una specifica corrente di pensiero, precisamente caratterizzata sotto l'aspetto della connotazione politica, che ha fatto della lotta alla mafia una vera priorità, per taluni, anzi, un'attività con i suoi ritorni anche di natura concreta". "Questo approccio mira a fare prevalere una ben precisa interpretazione su origini, moventi, sviluppi e responsabilità dei fatti più eclatanti dell'attività mafiosa degli ultimi venti anni e presuppone precise connivenze e puntuali favoreggiamenti in una parte delle istituzioni dello Stato - ha detto - Questo movimento d'opinione cerca tuttora condivisione e visibilità con una serie di manifestazioni, convegni, studi, pubblicazioni, interventi sul web, nonché attraverso il mezzo televisivo e le altre forme mediatiche".
Mori, infatti, ha parlato di un processo influenzato "sia dai continui giudizi ed esternazioni della associazioni antimafia, sia dai politici, sia soprattutto dai magistrati titolari del procedimento Nino Di Matteo e Antonio Ingroia che si sarebbero dovuti astenere dalle dichiarazioni su queste vicende sui giornali e in tv, come hanno del resto indicato alcuni loro colleghi".

Poi il generale ha ricordato, dettagliatamente, l'episodio del fallito blitz per la cattura di Provenzano a Mezzojuso (Palermo) nel 1995. Il processo ha infatti origine nelle dichiarazioni dell'ex colonnello Michele Riccio, che grazie al confidente mafioso Luigi Ilardo, avrebbe avuto delle indicazioni sul covo del latitante. Secondo Riccio, Mori, il 31 ottobre 1995, bloccò l'arresto di Provenzano che sarebbe stato possibile. "La mia conoscenza con Riccio - ha ribadito - risale agli anni Settanta, i miei rapporti con il colonnello, seppur sempre corretti, sono stati circoscritti all'ambito professionale. Ci separava un carattere diverso ma anche un differente modo di intendere la professione più verso il coordinamento la mia, più individualistica la sua".

Il generale ha poi parlato di Massimo Ciancimino e di quello che ha definito un suo "depistaggio spericolato". "Massimo Ciancimino, in uno spericolato tentativo di ricostruzione dei fatti, volto esclusivamente alla propria tutela, è stato anche accusato della detenzione in concorso di un rilevante quantitativo di esplosivo. La vicenda, oggetto di un diverso procedimento penale, è la conferma, se ve ne fosse stato ancora bisogno, del livello di aberrazione raggiunto dal soggetto, capace persino di mettere in pericolo l'incolumità della sua famiglia e di altre persone innocenti pur di manipolare a suo favore la realtà che lo riguardava".

Il generale ha stigmatizzato il comportamento di Ciancimino jr, secondo il quale Mori avrebbe fatto da intermediatore nella trattativa. "Peraltro, è lo stesso Massimo Ciancimino - ha proseguito Mori - ad ammettere le sue falsificazioni. Infatti, il 30 aprile 2011, in un colloquio in carcere con la moglie, dice di avere falsificato qualche documento da lui consegnato ai magistrati. Oltre a ciò, sostiene anche di non conoscere, ma solo di avere visto, l'oramai fantomatico 'signor Franco', venendo infine sollecitato dalla moglie a dire qualcosa in più per ottenere la scarcerazione".

Infine, ribadendo la sua innocenza, Mori ha affermato: "Che io sappia, non c'é stata alcuna trattativa". "Ho dimostrato - ha detto - che non c'é stata alcuna iniziativa, nelle mie attività, che mirasse a realizzare aspetti finalizzati a quello scopo. Non sono a conoscenza di intese o accordi che possano esserci stati in merito, per scelte di altri appartenenti alle istituzioni, perché se ne fossi stato informato, a suo tempo ne avrei fatto denuncia, così come mi competeva". Mori ha ricordato che "l'unico, chiaro indirizzo di natura politico-amministrativa che possa apparire come una concessione verso Cosa nostra di cui ho conoscenza è stato quello, operato dal ministero della Giustizia nel corso dell'autunno del 1993, e proseguito poi nei mesi seguenti, della riduzione del numero dei detenuti sottoposti al 41 bis. Sono dell'avviso che l'operazione rientra ampiamente tra le decisioni che la classe dirigente responsabile di un Paese possa assumere e di cui debba eventualmente rispondere, ma in sede politica. E questo anche se l'iniziativa, da me e da tutti i responsabili degli organismi delle forze di polizia all'epoca, fosse ritenuta inopportuna e controproducente". Mori è certo che "l'attenuazione del regime carcerario non ha sortito un alcun effetto sulla cessazione delle stragi di mafia. A mio avviso, la ferocia e l'ottusa determinazione di Salvatore Riina prima, e di Leoluca Bagarella e Giuseppe Graviano poi, non si sarebbero certo fermate per la modesta concessione rappresentata dalla promessa di ipotetiche migliori condizioni carcerarie dispensate ad uno sparuto gruppo di uomini d'onore di secondo e terzo piano che, quindi, non li riguardava". Cosa dimostrata, secondo il generale, dall'organizzazione dell'attentato allo stadio Olimpico di Roma.

Ha fatto dichiarazioni spontanee anche il colonnello dei carabinieri Mauro Obinu. "Mi sembrano davvero assurdi i sillogismi e le deduzioni che legano, non si capisce in che modo,  il mio operato alla protezione di latitanti come Bernardo Provenzano. Alle caustiche espressioni usate contro di me nella requisitoria non voglio replicare". "Nessuna ragione di Stato - ha spiegato - ha mai sfiorato le mie condotte professionali. Ho sempre lavorato con altissimo rispetto delle istituzioni e al massimo delle mie capacità. Non sono mai stato scudiero né di Mori né di altri".

[Informazioni tratte da Adnkronos/Ign, ANSA, Repubblica/Palermo.it, LiveSicilia.it]

- "Servitore infedele dello Stato" (Guidasicilia.it, 25/05/13)

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11 giugno 2013
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